Social housing: il gioco è finito

Alla fine tutto si tiene. Viviamo una società interconnessa non soltanto attraverso internet e i social network, ma anche dal punto di vista dei comportamenti, dell’economia, delle conseguenze dirette e indirette che le azioni in un determinato settore generano in altri ambiti.

La fascia sempre più ampia di ceto medio che non è più in grado di far fronte al proprio fabbisogno abitativo con i prezzi di libero mercato è figlia tanto di scelte politiche sbagliate in campo economico-monetario quanto  della perdurante crisi finanziaria. E’ una fascia fatta da piccoli commercianti, impiegati anche di un buon livello, professionisti, insegnanti;  un fenomeno diffuso in tutt’Italia e molti Enti locali, in assenza di contributi pubblici, cercano mezzi e strategie per dare risposta concreta a questo nuovo bisogno.

Ecco allora il progetto per la Social House (nulla a che vedere con l’edilizia residenziale pubblica) dibattuto sabato scorso in un convegno a cura dell’ANCE catanese:  se da un lato dalla discussione è venuta fuori l’ineludibilità di una partnership pubblico-privata, dall’altro sono emersi, e con estrema chiarezza fors’anche con durezza,  il disagio degli operatori per lo stallo delle politiche urbanistiche, le diseconomie che questo comporta come la perdita di importanti occasioni di finanziamento e quindi di ricchezza, l’ulteriore perdita di posti di lavoro e  impoverimento di chi, imprese e professioni, offre servizi in questo mercato,; si è ricordato come, almeno da quindici anni a questa parte, si discuta sulla riqualificazione del territorio senza ricavarne un ragno dal buco, pur a fronte dell’impegno che le rappresentanze di categoria hanno garantito.

Dicevo tutto si tiene perchè, se è vero che l’attività di social housing include grande attenzione rispetto alla sostenibilità finanziaria -sempre da garantirsi specie in presenza di costi calmierati- dall’altro essa non può svolgersi con successo senza un’adeguata attenzione alla gestione del territorio e le sue regole. E non c’è dubbio che nel territorio, catanese come siciliano, queste sono -da tempo- del tutto obsolete e inadeguate, non solo per il social housing. Per questo si è chiesto alla politica di gettare il cuore oltre l’ostacolo, di ritrovare la capacità di agire rapidamente, per il bene di tutti.

Perchè non possiamo pensare di consumare ancora nuovo suolo e quindi le risposte al fabbisogno abitativo devono, e possono, essere trovate all’interno della città consolidata; non possiamo dimenticare che il 70% degli edifici che formano il tessuto urbano è a rischio sismico oltre che grandemente inefficiente dal punto di vista energetico, per non parlare, ma dovremmo, della quasi sempre nulla qualità architettonica.

E allora tutto si tiene, si terrebbe: operare, con adeguati strumenti, nel rinnovo della città consolidata attraverso ragionati e condivisi interventi di ristrutturazione, riqualificazione, sopratutto sostituzione edilizia, consentirebbe per un verso di reimmettere sul mercato circa 15000 alloggi oggi non utilizzati di cui la città dispone, per un altro di innescare un ciclo vitale per l’intera economia, non solo per gli effetti diretti, ma grazie anche a quelli indotti dalla riqualificazione complessiva degli spazi e degli scenari urbani. Senza contare che un quadro di regole e possibilità operative chiaro attrarrebbe -è certo- altri investimenti cui non si può più rinunciare.

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