Da troppo tempo siamo abituati a consumare: ricchezza, territorio, energia; consumiamo senza rendercene conto, perdendo il senso e la misura di quello che consumiamo e questo perde significato in ragione dell’uso improprio che ne facciamo. Consumiamo anche le parole, così come ne tratta Gianrico Carofiglio in un suo gradevolissimo saggio. Allora appare esercizio utile procedere allo smontaggio, alla vivisezione delle cose che abbiamo consumato, analizzarle per poi rimontarle ricostruendone il significante e il significato. Anche perchè, l’abitudine al consumo ci porta a limitare il numero dei termini che utilizziamo, banalizzandoli, rendendoli buoni per ogni occasione abbassando il grado di consapevolezza e di possibilità espressiva rispetto ai temi che trattiamo. E’ così, è stato così, anche per l’edilizia.
Abbiamo, in questi decenni, perso il significato del linguaggio architettonico contemporaneo, utilizzandolo in maniera banalizzata, fintamente “democratica” poichè accessibile a tutti, anche a quelli privi della necessaria sensibilità e competenza per poterne utilizzare le potenzialità, producendo un’esplosione di cubature, di normative fintamente garantiste, nell’illusione che queste potessero, con la forza del numero e delle regole apodittiche, garantire la qualità del paesaggio. Invece abbiamo ottenuto un impoverimento del linguaggio architettonico diffuso, che si traduce in una brutta edilizia e, in conseguenza, brutte città.
Occorrerebbe quindi procedere alla manomissione dei valori; cioè mettervi mano per riscoprire il loro reale significato, riscoprendone termini importanti, trascurati e riservati a poche occasioni.
Occorre farlo nel mondo dell’edilizia, che dovrebbe essere un prodotto finito dell’Architettura e che invece, nella sua quasi totalità, è il prodotto scadente della banalizzazione del linguaggio compositivo. E sì perchè l’Architettura è linguaggio, espressione, sentimento, allo stesso modo della scrittura, della musica, delle arti. E il linguaggio ha bisogno, per evolversi e svilupparsi, di conoscenza e sperimentazione, di critica e condivisione, d’indagine profonda che non può essere troppo limitata dalla regola del numero e da quanti ne balbettano i postulati.
Dovremmo ripensare a queste cose e allora ci accorgeremmo che il rendere possibile l’esercizio su questi temi a soggetti privi delle necessarie complesse conoscenze, il rendere gli attuatori del linguaggio privi di forza contrattuale rispetto a quelli che dovrebbero esser i fruitori, dichiarare per decreto che competenti sono tutti quelli che sanno cosa sia o come si tiene in mano una matita pur non avendo praticato l’esercizio dell’analisi critica di quello che scarabocchiano è un errore.
Un grave errore che non ha bisogno di ulteriori dimostrazioni rispetto a quello che le nostre città offrono allo sguardo e non solo. Si dovrebbe ragionare di queste cose e invece chi ha il compito istituzionale di stabilire le regole si occupa d’altro, in una visione solo mercantilistica e quantitativa del problema. D’altronde da molti decenni assistiamo ad un generale impoverimento culturale della classe politica e quindi, fino a quando la selezione del suo personale non sarà ricondotta ai valori fondanti dell’etica e della cultura, nulla di meglio possiamo aspettarci.
Perciò dobbiamo fare da soli, quanto meno non risparmiandoci nella critica, facendo sistema con quelli che nella forza dei valori credono.