La crisi americana dei mutui sub-prime, nel 2008, ha fatto esplodere una serie di contraddizioni del liberismo spregiudicato le cui conseguenze fino a oggi paghiamo, non ultime il crollo del mercato immobiliare e il contemporaneo accumularsi di domanda di abitazioni per una larghissima fascia di popolazione che somma alle parti più deboli della società, immigrati, disoccupati, famiglie numerose monoreddito ecc., anche una consistente fetta del ceto medio non più in grado di sostenere il costo di affitti e mutui o che non può accedervi: una grande e crescente bolla di potenziale mercato priva di risposte. Ecco allora che, vista la sostanziale abdicazione dello Stato in tema di edilizia sociale, anche dalle nostre parti e con i soliti ritardi si parla di social housing e cohousing. Al di là dell’inglesismo di facile traduzione, parliamo di alloggi ad alto range ambientale da dare in locazione o in patto di futura vendita, a costi preordinati e calmierati, proprio a quelle fasce deboli o intermedie della società nel primo caso, ovvero, nel secondo, di un modo di concepire alcuni raggruppamenti di abitazioni e famiglie che condividano una serie di spazi e servizi al fine di ridurre il costo globale dell’abitare.
Se il fine appare simile, in realtà il social h. è molto vicino all’idea della casa popolare o in cooperativa, e quindi necessita di un soggetto promotore economicamente forte, anche perchè i suoi target sarebbero più indirizzati verso la riqualificazione e riuso di pezzi di città piuttosto che di consumo di nuovo suolo. Il modello di cohousing invece, ufficialmente nato nel 1964 in Danimarca e poi estesosi nel Nord Europa, individua l’insieme un certo numero di alloggi privati corredati da una serie di servizi e spazi aperti alla condivisione tra gli abitanti che, a fronte di alloggi più piccoli del 5-15% rispetto alle superfici medie, dispongono di un livello più alto di servizi a costi più contenuti. Cosa condividere tra i cohousers di solito è una scelta; questo presuppone che l’insediamento nasca per volontà di una comunità più ristretta e a monte individuata, una sorta di condominio evoluto dove, naturalmente e volontariamente, si sviluppano rapporti sociali più stretti. A questo modello è connessa una strategia verso la sostenibilità globale e partecipata, quindi energetica ma anche, per esempio, verso i gruppi d’acquisto solidale piuttosto che il car-sharing o la custodia dei bambini, anche una sorta di banca del tempo e dello spazio che ci si scambia a seconda delle necessità.
Un modello quindi interessante e leggero, che andrebbe sostenuto e agevolato sia normativamente che economicamente e che mi fa venire in mente -non se ne dispiacciano i danesi- le case terrane a cortile tanto diffuse nelle nostre città sin dal 1600, probabilmente derivanti da un retaggio arabo; case che si aggregavano tra loro realizzando uno spazio di accesso comune dalla strada segnato di solito da un arco. Nascevano per esigenze di economicità della costruzione, di protezione climatica, ma anche di solidarietà o parentela; lo spazio in comune -il cortile- era il luogo della socializzazione, il soggiorno collettivo, un luogo di lavoro o di gossip. Quindi i nostri avi erano già dei cohousers ante –litteram, cosa che potrebbe farci dire come, a volte, per trovare soluzioni a problemi complessi sia utile conoscere la storia e saperla riutilizzare in chiave contemporanea.