Non sempre il bello è anche pratico

Saltellando sul web si fanno scoperte interessanti. A Barcellona è stato di recente inaugurato un nuovo terminal dell’aeroporto. Molto bello ma con un piccolo problema: le signore in transito devono aver cura di indossare casti pantaloni se non vogliono esporre a sguardi, che non possiamo definire indiscreti perché inevitabili, la loro biancheria intima. Ciò a causa di un pavimento perfettamente riflettente che è molto bello da osservare nel contesto spaziale ma che  mette a disagio chi non aderisce alla moda del mostrar tutto comunque e dovunque.

Non è dissimile il caso di pavimenti in vetro trasparente a volte osservabili in prestigiose riviste d’arredamento che certo  consentono realizzazioni  dalla spazialità entusiasmante ma che risultano scarsamente vivibili, in termini di privacy, di facilità di manutenzione, di un normale riserbo, essendo nulla lasciato all’immaginazione di occasionali voyeur.

Altri esempi potremmo citare ma tutti conducono, a mio modesto avviso, ad una considerazione. In questi casi l’architettura, il controllo dello spazio e dell’ambientazione, l’effetto estetico, diventano il fine ultimo del progetto e non uno dei suoi termini, il principale dei quali dovrebbe essere il soddisfacimento dei bisogni contingenti dell’uomo, dell’utente, tra i quali è, anche, ricompreso il diritto alla bellezza.

Ecco questo è un limite e non un pregio, che riduce l’architettura a puro esercizio estetico e non al suo essere elemento fondante della crescita della società e della dignità dell’uomo.

Ed in questo suo limite rischia di giustificare chi la considera come un’entità voluttuaria e quindi non necessaria, insomma un di più  destinato ad eccentrici o a chi ha danaro da spendere (o buttare?). Rischia di giustificare chi considera l’architettura una merce più o meno lussuosa e quindi da poter assoggettare alle regole che valgono sia per i cocomeri che per le borse di firma.

Insomma, un’architettura solo autoreferenziale che non serve proprio all’Architettura e non serve alla gente, alla società.

Serve, servirebbe, un’architettura figlia del proprio tempo, contemporanea appunto, che del proprio tempo esprima le potenzialità, le contraddizioni, le problematiche.

In tempi come questi, di concorrenza sfrenata, di crisi di ordinativi e fatturato, di gente che  non ha più uno stipendio o non l’ha mai avuto, di liberismo irrispettoso della dignità dell’uomo e dei saperi, di caste di percettori di stipendi statali sicuri a prescindere dal lavoro più o meno eseguito, di un territorio che si sfarina ad ogni pioggia un po’ più intensa, o di case in cemento armato che crollano sotto il terremoto, bisogna che tutti si faccia un esame di coscienza per vedere se quando abbiamo progettato, quando progettiamo, abbiamo avuto chiara la mission che da millenni è assegnata all’architetto.

Non penso che si debba considerare riduttivo preoccuparsi di progettare costruzioni funzionali e relazionate al contesto ambientale  in cui si collocano. Non può considerarsi riduttivo disegnare case in  cui si possono collocare mobili di serie senza recarsi dall’ebanista per farsi costruire armadi inclinati o privi di un angolo retto in omaggio al cosiddetto decostruttivismo in cui tutto deve essere variamente inclinato. E questo non significa che si debba rinunciare alla ricerca di nuove forme espressive o un nuovo linguaggio architettonico. Al contrario, serve più ricerca, più responsabile.

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