Una delle polemiche che come ogni anno esplodono sotto gli ombrelloni ha riguardato la proposta di Bossi sull’insegnamento nelle scuole del dialetto .
Al di là della provocazione politica, il tema è di sicuro interessante, anche applicato alla disciplina dell’architettura.
Fino all’affermarsi del Movimento Moderno e del cosiddetto Stile Internazionale, ogni regione del mondo ha espresso, nelle architetture che ha prodotto, costruzioni che hanno in qualche modo tenuto conto delle specificità dei luoghi e delle culture sedimentate. Anche il Barocco, a ben vedere, si differenzia, sulla base di una trama comune, a secondo delle regioni del mondo dove si è sviluppato. Ai giorni nostri, un malinteso modernismo ha prodotto e sta producendo una serie di edifici indifferenti al contesto spaziale, paesaggistico, culturale, perfino climatico in cui si collocano. E’ tema questo che abbiamo discusso per certi versi in altri articoli di questa rubrica.
Dialetto, in architettura, può essere il coniugare le nuove tecnologie, le nuove spazialità, le mutate e sempre in divenire esigenze funzionali, al territorio ove si costruisce. I cultori della bio-architettura (aggettivazione che non amo preferendo distinguere tra buona e cattiva architettura) lo chiamano regionalismo architettonico.
Qualcuno lo intende come la pedissequa imitazione delle architetture del passato che fanno parte della storia di un luogo, integralisti privi del minimo ragionamento sul fatto che l’architettura serve all’uomo e l’uomo di oggi non è certamente lo stesso uomo del quattrocento, per dire. L’esatto opposto di chi pensa di poter costruire a Mogadiscio un edificio simile ad un altro pensato per Rotterdam.
Invece, penso, ci può essere un modo di essere contemporanei, cittadini del nostro tempo, senza tradire la storia, la cultura l’essenza stessa del territorio in cui costruiamo. Già basterebbe ragionare sugli aspetti delle prestazioni climatiche degli edifici per vedere che edifici tutto-vetro, anche basso emissivo, perfettamente giustificati in climi continentali, mal si adattano generalmente a climi mediterranei e sub-tropicali. E’ in fondo lo stesso problema che si trova davanti il progettista od il costruttore che deve intervenire all’interno di tessuti storici consolidati e sceglie di operare in perfetta simbiosi, per omologazione, con l’edificato circostante, oppure realizza un’opera che di quel tessuto, di quelle texture materiche e superficiali non tiene conto. Credo siano ambedue grossolani errori. Perché è vero che i tessuti storici vanno rispettati, ma è altrettanto vero che lo si può fare con forme contemporanee che tengano conto dei materiali del luogo, delle proporzioni dominanti, anche per scientemente contrastarle o sottolinearle. Vi sono progettisti, penso a Kengo Kuma, penso a Peter Eisenman, che di questi ragionamenti hanno fatto la via maestra della loro opera, e li ha portati lontano. Il dialetto, così inteso, esprime la capacità di raccogliere emozioni spaziali e volumetriche che arrischiscono il contemporaneo e non lo limitano, anzi.
L’alternanza ragionata del dialetto e della lingua ufficiale è un modo di rendere più interessante il racconto, come il successo di Camilleri dimostra, essendo il “dialetto” il modo per esprimere le emozioni , gli affetti e la lingua architettonica ufficiale il canovaccio che esprime le certezze della funzione, della struttura . Un altro modo di riaffermare l’identità di un luogo.