Natale, tempo di regali. Tra questi un interessante libro sull’opera di Daniel Libeskind, uno tra i più importanti architetti della nostra epoca. Nato in Polonia da due sopravvissuti all’Olocausto, dopo un periodo passato in Israele si trasferisce a New York dove studia e si laurea in Architettura negli anni ’70.
Le sue opere, che si possono iscrivere alla matrice decostruttivista, testimoniano la sua formazione intrisa di molteplici esperienze culturali e formative in uno alla memoria della shoah. Non a caso la sua opera prima, quella che gli dà notorietà internazionale, è l’ampliamento del Museo di Berlino destinato appunto alla commemorazione della shoah. L’ edificio sovverte tutte le regole della geometria, fatto di muri inclinati, di tagli netti in orizzontale e verticale, truci come colpi di spada, fortemente drammatico. Drammaturgia che si può cogliere in molte delle altre sue opere, che spaziano dai musei appunto fino alle torri residenziali. Certo, il successo ed i moltiplicarsi delle commesse, lo portano, come molte altre archistar, a replicare se stesso a volte riducendone la forza espressiva.
Il libro, “ Counter Point”, ci dà conto di tutto questo, permettendo anche a chi non è avvezzo al linguaggio dell’architettura di comprenderne il percorso architettonico e ci fà capire come l’architettura decostruttivista sia, in realtà, fortemente “costruita”: perchè alla libertà estrema, quasi anarchica, della forma, sottende un attentissimo studio delle funzioni e delle relazioni spaziali, il cui risultato dipende proprio da un’elevatissima capacità di controllo delle tecniche costruttive.
Il percorso iconografico ed illustrativo del libro, spietatamente, onestamente, ci mostra il Libeskind poetico insieme al Libeskind sgradevole e supponente, in un alternarsi di edifici che quasi a volte si fatica ad attribuire alla stessa matita.
Basti confrontare le torri della Editoriale Bresciana, a Brescia appunto, con il complesso residenziale realizzato a Covington in Kentuky. Un segno rapido e netto, su una pianta triangolare, capace di riconnettere in maniera originale una maglia urbana abbastanza scontata nel primo caso, interessante tanto quanto appare fuori misura e decontestualizzato il secondo.
Libeskind dice che non usa differenti approcci quando disegna un grattacielo rispetto ad progetto di un museo: è vero, tuttavia quando si occupa di edilizia “normale” sembra manchi quella spinta emotiva che gli permette di realizzare veri edifici in movimento capaci, con il loro avvilupparsi di forme, di conquistare e specializzare lo spazio circostante. Le ultime opere riguardano l’Italia con il progetto della torre al CityLife di Milano e il museo dell’arte contemporanea, progettato nell’ambito della stessa operazione immobiliare. Se il primo, con la sua particolare forma, piegata in un deferente inchino, può essere considerato un omaggio, ardito e spettacolare, all’altro simbolo di Milano-il Duomo e la sua famosa “madonnina”, il secondo, un edificio a pianta quadrata che si deforma fino a diventare circolare in sommità, sembra uno sterile esercizio di abilità geometrica , sia pure giustificato come un omaggio alla “quadratura del cerchio” di leonardesca memoria, che non riesce ad emozionare.
Luci ed ombre, onestamente evidenziate e lasciate al libero giudizio, che comunque fanno naturalmente parte della storia professionale dell’artista e che non ne intaccano l’indubbio valore.