Pagine e pagine di giornali ci spiegano che le società progrediscono nella misura in cui sono capaci di produrre ricerca, innovazione, e di diffondere cultura generale e specialistica che si forma in prevalenza nelle Università.
L’Italia ha storicamente avuto un rapporto tra popolazione e laureati tra i più bassi del mondo occidentale, per superare il quale, alla fine degli anni novanta, venne inventato il nuovo sistema universitario basato su due livelli di laurea, il cosiddetto 3 + 2. Voleva questo sistema aumentare la percentuale di laureati rispetto alla popolazione attiva, sia per migliorare il dato statistico, sia per offrire al mondo delle imprese intelligenze da inserire più velocemente nel sistema produttivo. Insieme a questo è nata la fabbrica delle lauree e delle nuove competenze , a volte anche singolari e poco comprensibili rispetto all’utilità pratica.
Certo benefici si sono avuti: per esempio è aumentato a dismisura il numero dei professori universitari, chiunque con poco sforzo può riuscire a fregiarsi legittimamente del titolo di “dottore” che una volta veniva elargito dai parcheggiatori abusivi a chiunque si avvalesse dei loro servigi. L’industria potenzialmente può acquisire dei “quasi professionisti” magari più a buon mercato rispetto al professionista tradizionale, meglio ancora perchè meno intellettualmente autonomo e tutelato.
Questi gli obbiettivi auspicati che però sono andati incontro a quello che il consorzio AlmaLaurea , che di lauree ben si intende, nel suo studio “ Profilo dei laureati 2006” individua come un sostanziale fallimento.
Il sistema è stato bocciato dagli studenti, dal risultato sulla loro permanenza nelle Università, se ben oltre 80 laureati su 100 proseguono gli studi oltre il primo livello ed anzi tendono a parcheggiarsi anche oltre negli atenei per l’inevitabile aumento dei tempi di conseguimento del titolo e perchè il livello formativo mediamente garantito non offre reali sbocchi lavorativi.
La nuova ripartizione degli studi e delle specializzazioni ha avuto pesanti effetti su alcune competenze che più di altre soffrono della parcellizzazione degli indirizzi. Tra queste psicologia ed architettura, dove solo poco più del 20 per cento degli studenti laureati intervistati ha espresso una valutazione positiva sugli studi effettuati ed ancora meno, il 13 per cento, ha espresso un giudizio positivo sui docenti.
D’altronde è quantomeno temerario pensare di spezzettare, a livello della formazione, competenze come l’architettura e la psicologia appunto, che per loro natura hanno carattere olistico ed ontologico, sono cioè discipline globali che nella loro capacità di gestire ed organizzare fenomeni complessi ed articolati , se non intimamente multidisciplinari, hanno il fondamento.
Ora questo governo non ha lesinato attività per riformare riforme appena fatte, anche contro ogni logica pratica e finanziaria, il ministro Mussi ha per la verità emanato una circolare per limitare il numero dei corsi universitari e qualche rettore ha cercato, nei limiti normativamente possibili, di migliorare gli sbocchi occupazionale dei propri studenti.
Forse però bisogna ritornare a pensare che cultura e competenza sono frutto di sacrificio mirato, si deve considerare la selezione meritocratica come una risorsa poichè alla società non servono tanti, troppi, professionisti, servono buoni professionisti.