La storia, si sà, è fatta di corsi e ricorsi. Vale per molti aspetti della vita: ad esempio la moda è fatta di gonne che si accorciano o si allungano, di revers larghi che poi diventano stretti e viceversa, pantaloni a vita bassa, poi a vita alta, di nuovo a vita bassa.
Questo ciclico alternarsi sembra valere anche per i fatti urbani. E’ di questi giorni la notizia della presentazione di un progetto per la riqualificazione del quartiere di San Berillo, conosciuto come la più vasta area a luci rosse d’Europa; un quartiere, un problema, cui si cerca una soluzione sin dagli anni sessanta.
Adesso è la volta, è fatto di per sé positivo, di un progetto (?) di riqualificazione avviato dall’Amministrazione di Catania supportato da finanziamenti europei in parte già utilizzati e che, nelle aspirazioni della Politica, dovrebbe portare ad una rivitalizzazione complessiva, in chiave residenziale, dell’area.
Se ne parlò qualche anno fa con l’ipotesi di sostanziali demolizioni di risanamento sull’onda del perbenismo sociale, che dovevano sradicare il fenomeno della prostituzione, per fortuna non attuate. Se ne riparla adesso attraverso un’ipotesi progettuale che, sulla base di analisi ufficialmente indirizzate verso la riqualificazione degli spazi ed edifici recuperabili, tuttavia prevede, stando a quanto si può apprendere, l’eliminazione di cosidetti “ruderi non ristrutturabili” valutati intorno al 60, 65 % dei fabbricati esistenti, due terzi cioè dell’intero plafond edificato.
Viene perciò da chiedersi quale tipo di indentità potrà mantere il quartiere se si prevede la sostituzione di oltre il cinquanta percento del suo tessuto edificato, e, viene da chiedersi, con quali e quante strutture questo ipotetico tessuto verrà , se verrà, riconnesso.
Viene da chiedersi come potrà essere immaginata la riconversione-riqualificazione del quartiere se non in rapporto con il completamento delle aree libere del Corso Martiri della Libertà e con la fascia edificata a ridosso del Porto ed il fronte stesso dell’acqua, i reali margini di connessione e integrazione con il tessuto cittadino. Viene da chiedersi se non vi sia il rischio che la riqualificazione attuata partendo dal dato che oltre metà del tessuto esistente presenta “ gravi problemi strutturali” non faccia rientrare surrettiziamente quel “piccone purificatore” che già qualche anno fa, da queste stesse pagine, abbiamo paventato e sommessamente contestato, e con questo non si apra la strada, pur non volendolo, alla speculazione edilizia. Perché se ciò accadesse non basterebbe che la zona fosse “aggredita” commercialmente con l’apertura di pubs e ristoranti, per avviarne la riqualificazione.
Nè basterebbero incentivi economici o fiscali, pur necessari, per stimolare i proprietari degli immobili a ristrutturarli.
Questo processo invece potrà essere meglio incentivato attraverso il ripristino delle condizioni minime di legalità e sicurezza, accompagnate dalla tutela del “carattere” del quartiere , dato che potrà essere meglio garantito se cambierà il rapporto tra il tessuto da conservarsi e quello da innovarsi. E se questa, comunque necessaria, innovazione avverrà con l’inserimento di germi e gemme di architettura schiettamente contemporanea , contaminante e, perché no, intelligentemente dirompente.
Forse allora non ci sarà bisogno di ispirarsi a modelli stranieri (quanta intelligenza e lungimiranza ha dimostrato avere Martoglio con la sua Aria del Continente), costruendo invece un modello originale e propositivo.