A volte è difficile. Capire i messaggi ed il valore di un’Architettura, può esserlo anche per chi è strutturalmente avvezzo ad interpretarne segni e spazi; alcuni di questi possono lasciare senza fiato e non sempre questa emozione è positiva.
Senza fiato lascia una delle ultime opere di Daniel Libeskind, ancora un museo, questa volta nello stato dell’Ontario. Si tratta di una specie di “fortezza delle solitudine” (per i cultori di Superman ) cioè il rifugio creato nel ghiaccio dl supereroe, che dal ghiaccio e della sua struttura cristalloide trae la sua forma ed i suoi componenti. Ecco, il Royal Ontario museum (vi consiglio di vistarne il sito: www. rom.on.ca/crystal/name.php.) è una sorta di agglomerato di grandi cristalli che, non si sa bene se piovuti come un meteorite dal cielo o spinti all’esterno dalle viscere della terra da un forza immane, è nato nella città di Toronto come ampliamento della sua storica sede. Sede costituita da un banale edificio degli anni venti, a pianta rettangolare, con richiami più o meno classicheggianti, cui la nuova costruzione si incastra, senza tuttavia mai toccarla effettivamente, tentando di fagocitarla nella sua struttura gemmoide; una esplosione di prismi in alluminio e vetro dove vi è un solo muro diritto, dove la storia di conflitti, tensioni, diversità e sovrapposizioni culturali, che il museo documenta, trova la sua esternazione ed il suo simbolo nello stesso oggetto architettonico. I due edifici si lambiscono e ciò basta a creare uno spazio interno di relazione, una sorta di piazza chiusa, che consente ai visitatori di leggere e capire i due spazi, che tra di loro relazionano esclusivamente per mezzo di passerelle. Le immagini degli interni, a volte, ci fanno perdere il senso dell’orientamento, la monocromaticità e l’intersecazione di superfici ed elementi variamente inclinati creano disequilibrio anche rispetto alla nostra condizione di bipedi eretti; si perde il riferimento tra pavimento e soffitto, tra basso ed alto; disequilibri con i quali Libeskind sostiene aver voluto rievocare i conflitti tra cultura e natura , tra naturale ed artificiale. Ne vien fuori una costruzione in cui il peso di questa premessa ideativa si trasforma in gravità materica che neanche l’uso dell’alluminio e vetro, con cui il volume è realizzato, riesce ad alleggerire. Riesce forse, con i suoi tagli vetrati su superfici compatte, a ricavare dei momenti temporali, nel corso della visita, in cui si alleggerisce il parossimo claustrofobico volutamente trasmesso dagli spazi distorti: attraverso un’improvvisa visione del cielo, delle luci del tramonto che colorano le superfici metalliche.
Tutto questo sforzo creativo alla fine però rischia di diventare, ed al momento lo è, autoreferenziale, mutuando l’edificio il ruolo di contenitore e contenuto.
Il Direttore di questo Museo, in una recente intervista sostiene che l’arte contemporanea deve rappresentare una discontinuità, deve essere provocatoria. Quest’architettura sembra esistere al di là della sua funzione, del suo essere un mezzo per soddisfare una necessità dell’Uomo, quello , ancestrale, di creare dei ricoveri per se stesso e per i suoi oggetti.
Personalmente credo che ciò possa essere un valore, al di là dei gusti e della sensibilità personale, quando ci riferiamo a pochi edifici simbolo , come il R.O.M. è sicuramente.
Non credo alla assoluta autoreferenzialità nell’architettura tout-court; rischiamo, a lungo andare, il suo rifiuto.