La professione tra Vitruvio, Smith e Marx
Vi ho mai parlato dell’origine del termine “architetto”? Risale al greco antico e nasce dall’unione tra le parole, “archè” e “tecton”; il primo significante il comandare, fondare, originare, il secondo inventare, plasmare, costruire. La prima unione conosciuta risale a Erotodo (“Storie”, 440-429 a.C.) nelle quali il termine di architetto (e quindi il creatore-costruttore) era associato a qualsiasi cosa fosse costruibile. Dobbiamo arrivare nell’antica Roma, a Vitruvio e al suo “De architectura” (30-20 a.C.), per avere un primo tentativo di definire, in maniera scientifica, il percorso formativo e le competenze necessarie a esercitare il mestiere dell’architetto anche, secondo alcuni, per elevarne il ruolo sociale, a quel tempo quasi sempre subordinato al volere del committente e dell’impresario. Molto diverso da quanto più anticamente praticato nell’Egitto dei Faraoni, dove l’architetto era una figura sacerdotale grandissimamente rispettata, le cui conoscenze spaziavano dalla matematica e geometria fino alla medicina.
Quindi anche nell’antichità la figura dell’architetto ha avuto alterne vicende con, però, la costante di assegnare a questo “artista armato di numeri” (Francesco Fichera), il compito della visione globale, del coordinamento finalizzato al risultato di tutto il processo, dalla creazione alla realizzazione di un’opera. Ecco perché, nel precedente articolo, ho parlato di uno << svilimento della professione e di un improvvido Decreto 238/2001>> che questa visione globale ha voluto negare. E qui veniamo allo spezzettamento delle competenze, alla confusione dei ruoli nel campo dell’architettura che l’Italia vive da troppi decenni, di cui tante volte abbiamo già discusso: se guardassimo a questo fenomeno secondo un orizzonte storico, dovremmo risalire addirittura alla fine del 1700 (rivoluzione industriale) e alle teorie di Adam Smith il quale analizzò i fenomeni di divisione del lavoro connessi alla industrializzazione, paventando il rischio di una “mutilazione mentale” del lavoratore trasformato in “ignorante solitario”. Gli fece eco Marx che previde la diminuzione di competenze diffuse e flessibili e quindi il rischio di grandi espulsioni dal mondo produttivo a seguito delle variazioni di ciclo economico. D'altronde sempre Smith sosteneva che la divisione “produttiva” del lavoro avrebbe avuto senso solo in un mercato progressivamente sempre più grande. Evidenti, mi pare, i collegamenti con i problemi di globalizzazione e di liberismo esasperato che viviamo ai nostri giorni, che ci portano a una divisione del lavoro non solo tra persone ma addirittura tra Stati, in cui unico vincente è la finanza speculativa, non l’uomo!
Ecco il governo politico delle professioni in Italia, di ogni colore, ha avuto a riferimento un processo (rivoluzione industriale e divisione del lavoro) ampiamente superato, i cui difetti erano già noti; lo ha fatto con demagogia e pressapochismo emulativo, senza l’ orizzonte reale del contesto socio-economico del territorio e del benessere globale dei suoi cittadini, pur avendo come esempio altri Paesi concorrenti in cui la figura e l’apporto professionale degli architetti e dell’architettura hanno riassunto quel ruolo “sacerdotale”, quasi mistico, che era riservato alla disciplina nell’antico Egitto e di cui il fenomeno delle “archistars” ne rappresenta oggi la proiezione mediatica.