La ripresa delle nostre conversazioni coincide con l’avvio della Biennale veneziana di Architettura che il curatore David Chipperfield ha voluto chiamare “common ground”, sostanzialmente “territorio comune”. Credo abbia inteso Chipperfield ricercare, tra chi si occupa di architettura, un comune sentimento nella trasformazione delle nostre città o i punti di contatto -il territorio comune- nel quale e attraverso il quale gli architetti interpretano lo spirito e le problematiche di questi nostri tempi al di là dei grandi gesti, delle grandi opere, delle singole personalità che i media sono soliti definire “archistars”. Ha inteso riconsiderare l’architettura attraverso le opere diffuse, quelle che giornalmente si costruiscono e che, alla fine, determinano il tessuto delle nostre città e paesaggi e dentro i quali, ora per ora, si svolge la nostra vita. Un’operazione piena di rischi sicuramente ma che, secondo lui, dovrebbe rappresentare “l’occasione per un confronto costruttivo e non per fare spettacolo o notizia”. Un modo per fare una fotografia dello stato dell’architettura contemporanea con le sue contraddizioni e le sue opportunità, al di là delle competizioni e senza troppe celebrazioni.
Certo, ciò ha messo in luce queste contraddizioni e così sono rispuntate fuori alcune tendenze, come un certo rivolgersi alle tradizioni storiche consolidate che in anni passati determinarono il cosiddetto “postmoderno”: direbbe qualcuno una voglia di “reazione”. Un rischio credo consapevolmente accettato, per far emergere non tanto le singole architetture “speciali” bensì quanto di buono giorno per giorno, nella “normalità” viene prodotto e che non necessariamente è mediocre. In questo spirito il Padiglione Italia, curato da Luca Zevi, ha voluto mostrare le architetture rivolte al mondo della produzione, e cioè fabbriche, uffici, insediamenti per l’agricoltura, fatte per rispondere a concrete esigenze pratiche e di lavoro. Un modo per riavvicinarsi alla concretezza del “fare” e dell’”utile” che la spettacolarizzazione dell’architettura, mediaticamente intesa, ci aveva fatto dimenticare. Un modo anche per riavvicinare l’architettura all’uomo normale, al quale in fondo essa è destinata. Certo non sono mancate, non mancheranno, le critiche, soprattutto da parte dei nostalgici dello “scoop” o di quelli che per architettura intendono solo qualche edificio dalle forme improbabili e fini solo a se stesse. E, per fortuna, c’è stata anche una discreta rappresentanza siciliana, sei progetti, che se non rappresentano certo compiutamente tutto quello che di buono è stato fatto nella nostra terra, almeno hanno dato e daranno buona testimonianza che anche qui si può fare architettura “utile e buona” e che, secondo me, vale doppio tenuto conto delle difficoltà “ambientali” con cui gli architetti siciliani, più di quelli italiani, sono chiamati ogni giorno a misurarsi.