Riparazione, la ripartenza del territorio

Ragionando ancora sull’ evoluzione dei processi costruttivi e delle trasformazioni territoriali ritengo che, con la ripresa economica, dovremo confrontarci con un diverso modo di concepire queste attività. E’molto probabile che il processo riparta attraverso atti di riparazione, concetto che assomma quello del riuso ecosostenibile del patrimonio edilizio esistente a quello della riqualificazione urbana. Dalla fine della seconda guerra mondiale, con poche pause, abbiamo consumato territorio indiscriminatamente, costruendo comunque e dovunque, lo abbiamo riempito di edifici privi di qualsivoglia standard qualitativo che non fosse quello della rendita, generando danni ambientali, al patrimonio storico-artistico, alle comunità urbane, i cui effetti oggi misuriamo purtroppo con regolare cadenza; e quando non si verificano eventi luttuosi o disastrosi, li percepiamo più o meno consapevolmente nella vita di tutti giorni: inquinamento, rumore, città che hanno perso qualità dello spazio pubblico anche attraverso le quinte edificate senza alcun interesse per l’etica architettonica.
Da questo punto di vista la crisi non ha fatto altro che evidenziare, attraverso i processi del mercato, questi fattori. Allora sembra una buona strada, soprattutto conveniente e necessaria, ragionare in termini di “riparazione”: quando si causa un danno, a se stessi o ad altri, questo danno è bene riparare, come si ripara a un torto fatto a qualcuno o una macchina quando si rompe. Se ci pensiamo bene, ciò costituisce un’opportunità gigantesca, forse paragonabile, per dimensione economica, allo sforzo ricostruttivo del dopoguerra. Riparare le nostre città, i nostri territori, necessità però di un cambio di passo e di mentalità, anche negli strumenti: più o meno la nostra legislazione urbanistica è tutt’ora ancorata ai cardini di una legge del 1942 e poco più; un sistema normativo che regolamenta gli atti pianificatori e costruttivi secondo parametri di quantità il cui rispetto, quando ciò ci sia stato, poco ha garantito in termini di qualità del risultato. Volto a limitare, impedire, regolamentare in maniera ossessivo-compulsiva, che demanda poi una verifica di ultima istanza a procedimenti giuridico-amministrativi di dubbia -lo dicono i risultati- utilità. Da questo punto di vista il mondo, e non da ora, è cambiato: attraverso poche regole, semplici e chiare -soprattutto utili- il progetto d’architettura o d’urbanistica è un processo culturale all’interno del quale è contenuto l’hardware tecnico-giuridico e non viceversa. Ciò che può liberare la creatività e l’emersione delle migliori intelligenze invece che degli specialisti dell’interpretazione normativa e i suoi abusi.
Questa evoluzione è ancor più necessaria se la pensiamo applicata alla riparazione urbana e architettonica dei nostri insediamenti antropici e naturali, oggettivamente più complessa e articolata rispetto a quanto sin ora fatto. Come pure dobbiamo ripensare alle tecnologie con le quali operare che, nella pratica corrente esclusi troppo limitati esempi, hanno subito modesta evoluzione dall’avvento del cemento armato in poi, almeno dalle nostre parti. Abbiamo l’opportunità di rivedere i nostri modelli operativi in termini di efficienza e, penso, solo gli operatori che sapranno cogliere questa sfida saranno i protagonisti della rinascita, opportuna quanto ineludibile, della nostra terra.

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