NON POSSIAMO PRETENDERE CHE LE COSE CAMBINO SE CONTINUIAMO A FARE LE STESSE COSE (A.Einstein)

In poco meno di un anno la comunità degli Architetti Italiani ha potuto ascoltare per due volte l’opinione Giovanni M. Flick sul mestiere e sul ruolo che dovrebbe avere la professione; a Roma nel luglio 2018 e a Milano da pochissimo, nell’ambito delle attività collaterali al Salone Internazionale del Mobile. A Roma Flick ci trasportò in un viaggio dentro l’art.9 della Costituzione, orientandolo sul rapporto tra i valori del passato e le regole per il futuro, rappresentazione della complessità del presente alle quali si possono dare efficaci risposte attuando i principi dell’art. 9 nel senso di norma propositiva e non vincolistica che, in fondo, vuol favorire la diffusione di una cultura consapevole; un patrimonio senza il quale è difficile recuperare appieno la percezione dello “spazio e del (nel) tempo”, la cui mancanza non ci consente di governare adeguatamente la natura lenta dell’evoluzione delle città. Parlando di questo agli architetti, non solo a loro, si è aiutato con il pensiero di Platone il quale, nei suoi numerosi dialoghi sulle arti, ha riconosciuto come l’architettura, per esser praticata, richieda e possieda una “particolare competenza” utile: “io vedo che quando gli Ateniesi si raccolgono ..per qualche decisione.. ed essa riguarda edifici da costruire, mandano a chiamare gli architetti per sentirne il parere”. In altri successivi il filosofo precisa meglio quali siano le competenze necessarie agli architetti, padroni di una scienza per la quale è necessario saper di calcolo, misura, ordine, proporzione. Nella “Repubblica” parla di “scienza del costruire” (e non di “arte del costruire”), particolare e qualificata che, proprio per questo, ha assunto il nome specifico di “Architettura”. Una scienza conoscitiva che distingue gli architetti dagli artefici manuali in quanto, mediante il loro sapere, sono chiamati a dirigerli. Principi questi, una volta più o meno presenti nell’applicazione pratica anche da noi, che anni di applicazioni liberiste all’economia e interpretazioni giuridiche singolari (sic!) hanno stravolto, portandoci ad una situazione che, oggi, ha bisogno di essere ricondotta alla sua reale condizione e che Paesi nostri competitor già attuano, tutelando meglio la natura di interesse pubblico dell’architettura. Paradossalmente, la grave crisi di identità che il mestiere vive in Italia costituisce una grande occasione di cambiamento. Partendo dall’ordinamento della professione, vecchio di quasi un secolo. E’ ragionevole forse pensare che i tempi siano maturi per trasformare gli Ordini, nati come organo di magistratura a tutela della committenza, in organismi ad autogestione regolata che si occupino di politica e governo della professione, a partire dai suoi fondamenti formativi fino ai ruoli di responsabilità nelle trasformazioni del territorio a qualsiasi scala. Una professione unica, con un unico titolo nel quale eventuali competenze settoriali si affianchino alla visione generale e non la sostituiscano. Restituendo all’architettura, anche per status giuridico oltre che logico e storico/filosofico, il suo interesse pubblico e, soprattutto, culturale. Non di impresa, come peraltro chiaramente riconosciuto anche nella Carta di Nizza (artt. 15 e 16), oltre che da Platone. Altre cose interessanti si rilevano in questo documento (agli artt. 30 e 36 per esempio) ma non è questa la sede per parlarne. Quel che conta è che la logica conseguenza di questi ragionamenti ci dovrebbe portare a valutare se, in una riforma ordinamentale, sia da considerare come riferimento non più il Ministero di Giustizia (caso unico in Europa) ma quello ai Beni Culturali, a riconoscimento (con risvolti pratici) della specificità e del ruolo che la storia e la cultura millenaria all’Architettura e agli Architetti hanno assegnato. Ed è argomento che approfondiremo, più in là.

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