Era il Febbraio del 2006 e la Lucianina nazionale in una trasmissione si lanciava in una performance, come al solito ironica e graffiante, che aveva per oggetto il complesso rapporto tra l’architetto ed i suoi committenti. Ciò mi spinse a scrivere, per la rubrica che allora tenevo settimanalmente sul quotidiano cittadino, un articolo che aveva lo stesso oggetto, cercando di approfondire l’argomento in tremilatrecento battute. E’ a causa di quell’articolo -che avevo ormai dimenticato- che Nicola Fazio e Vittorio Valente, titolari dello studio” interurbane architetture”, mi hanno invitato lo scorso 24 Maggio a Catanzaro nell’ambito della manifestazione nazionale “Open! Gli architetti aprono i loro studi.” Li ringrazio perché non conoscevo Catanzaro, ho avuto modo di apprezzarne l’ospitalità e di reincontrare cari amici avendo l’occasione di acquisirne di nuovi. Ho provato a ricambiare la fiducia cercando di affrontare il tema dato -Committenza d’autore- essendo consapevole che avrei, avremmo parlato ad una platea prevalentemente di non addetti ai lavori e, volutamente, mi son ripromesso di non ricorrere alle immagini, alle slide, per supportare i ragionamenti. Ho seguito, l’ho fatto spesso, l’esempio di Cynthia Davidson, redattrice del NYT e editrice di riviste d’architettura dove questa è stata raccontata solo attraverso l’uso della parola, per evitare il sopravvento delle “immagini” sui ragionamenti. In effetti, anche negli interventi che hanno preceduto il mio, l’argomento è stato affrontato da più punti di vista secondo questa logica; in particolare in quello di Giuseppe Macrì, presidente dell’Ordine Architetti di Catanzaro, che ci ha fatto riflettere sul dato che la cultura, la conoscenza, la consapevolezza, hanno bisogno del tempo e della costanza per svilupparsi e stratificarsi, essendo necessario che la sensibilità verso l’ambiente naturale e costruito si acquisisca nel tempo, sin dalla più giovane età, per avere cittadini del domani migliori di noi. Per parte mia ho cercato di ragionare sul rapporto onirico e duale -quasi sessuale- tra committente e progettista, indispensabile perché #nasca l’architettura, piccola o grande che sia. Ci deve essere un padre -il committente- che ha ben chiaro quali siano i suoi intendimenti, le sue necessità in rapporto al contesto (il seme), ci sarà una #madre -il progettista- che avrà il compito di fecondare, curare e sviluppare quel seme trasformandolo in una creatura compiuta. Naturalmente l’ho fatto non sottacendo, anzi, tutte le difficoltà e complessità indotte da un sistema politico, normativo e burocratico che è costruito proprio per rendere più difficoltosa la nascita di un’architettura e che #educa la committenza all’esatto contrario di quel che dovrebbe essere. Mi sono aiutato anche con alcune frasi celebri sulla questione, partendo dall’ovvia constatazione che non esistono buone risposte se non ci sono buone domande, delle quali qui mi piace riportarne due: la prima di Luciano De Crescenzo, secondo il quale tra due soluzioni possibili l’architetto sceglierà la migliore, mentre l’ingegnere quella con meno errori; la seconda, notissima di Le Corbusier, recita che la costruzione è per tener su, l’architettura è per commuovere! Mettetele insieme , datene una lettura combinata… Significano, coerentemente insieme, che l’architettura travalica il suo significato solido, alla piccola come alla grande scala, per assumere un ruolo e una funzione che va oltre il risultato pratico che può avere per il singolo diretto committente; incide sulla società in generale perché trasforma lo spazio che ci circonda e questo, in qualche modo e misura, è un patrimonio collettivo. Lo è sempre stato!