Attribuiamo la crisi che viviamo a questo o quel governo, alle politiche recessive e sbagliate della UE, alla corruzione e inefficienza del nostro personale politico, al gap infrastrutturale che ci divide dal resto dell’Europa, a tanto altro. Tutto vero, sono motivi convergenti per diversi fattori e diverso peso; tuttavia forse possiamo individuarne un’altra di causa –più generale- della nostra crisi: il fatto che ci troviamo al centro di un’epoca di passaggio e di grandi cambiamenti tecnologici, politici e sociali, che riguarda l’intero mondo e tutti i settori. Una sorta di nuova pre-rivoluzione industriale, molto più grande nelle dimensioni e negli effetti, la cui capacità di comprensione, nelle comunità, ne determinerà il loro sviluppo e benessere.
Visto da questa angolazione, l‘annoso dibattito che da noi si svolge sulle norme urbanistiche, sui processi di governo del territorio e sui loro aspetti quantitativi, sugli stessi processi di pianificazione della città nei modi più o meno soliti, ecco, visto da quì, appare un po’ ridicolo, surreale. L’economia, la società, la sua stessa composizione assumono e assumeranno sempre di più connotazioni di rapida variabilità globale, andiamo verso società più “liquide” e quindi le città, quelle in cui poi si genera reddito, benessere e cultura diffusa, si devono adattare in tempo reale a questi cambiamenti. Ne deriva che il sistema delle regole stesse dovrà mutare, non nella forma ma proprio nella tipologia, poichè dovranno governare città competitive, flessibili e di conseguenza creative, capaci di attrarre e generare creatività, in cui le relazioni tra le sue varie componenti fisiche e immateriali saranno allo stesso tempo labili e strettissime: dovranno essere anche attrattive in senso economico e anche estetico-ambientale , uno dei temi della competizione. Quindi fa un po’ sorridere l’accapigliarsi oggi su un mq. edificabile in più o in meno, su un grattacielo quì piuttosto che lì, nell’illusione di poter congelare oggi per domani la forma e la sostanza di una società e un’economia che, per dirla con il mio amato Camilleri, è destinata ad avere “la forma dell’acqua”.