Le infinite forme di riproducibilità tecnica, i nuovi mezzi espressivi, hanno fatto sì che l’arte abbia aggiunto, in parte sostituendoli, ai suoi supporti tradizionali fatti di materia solida quello digitale. Non sono rare performance artistiche destinate a “vivere” solo qualche momento, qualche ora o giorno, di cui dopo non resta più nulla se non nei files di qualche computer .
C’è quindi da chiedersi quali capacità abbiano questi tipi di espressione artistica di generare cultura, di stratificarla, di capitalizzarla attraverso il tempo, così come da millenni avviene.
L’architettura al momento, sembrerebbe l’arte meglio capace di resistere a tali forme di cambiamento, o almeno alle sue estremizzazioni, rimanendo prevalentemente ancorata alla sua capacità di modellare lo spazio in ragione delle esigenze umane e di offrire ad esse e all’uomo un solido riparo. Nel suo essere bene anche solido e materiale, costituisce traccia duratura nel tempo degli uomini che l’hanno prodotta, tempo che, nel passato, era coniugato all’infinito.
Mario Botta, architetto ticinese di fama mondiale, nel presentare uno dei suoi ultimi lavori di edilizia residenziale a Sesto San Giovanni, a questi concetti si riferisce: quello della solidità, del riparo, della materia, coniugati con un alto profilo estetico che è il mezzo per raggiungere l’obbiettivo etico di migliorare la vita dell’uomo alle varie scale, privata e pubblica.
Credo che queste finalità pervadano l’opera sia degli architetti grandi, sia di quelli “condotti” che ogni giorno cercano di dare il loro piccolo contributo, come possono o come gli è consentito fare, al miglioramento della qualità della vita.
E allora non capisco, o meglio capisco bene, cosa stia succedendo nel mondo della formazione universitaria così come in quello dei media e nelle mostre di architettura. In questi mondi, o almeno in una parte di essi, sembra che la leggerezza, invocata e praticata da una significativa parte del pensiero architettonico, si stia trasformando in etereità, inconsistenza; sembra che le possibilità tecnologiche rappresentative dell’idea architettonica siano più importanti dell’idea stessa, anzi siano esse stesse l’architettura: diceva un’importante docente universitaria di Composizione Architettonica che stiamo mettendo sul mercato tanti architetti che sono ottimi “cartellonisti”, capaci cioè di confezionare un manifesto, una foto bellissima ed accattivante di architetture che tali poi non sono perché deboli di funzioni e contenuti. Architetture appunto “virtuali” di cui resterà traccia solo nelle memorie elettroniche o destinate a diventare obsolete e quindi da dismettere in tempi troppo rapidi, magari belle a vedersi ma di fatto prive di utilità.
Segnali e sensazioni che mi si sono rafforzate in una recente brevissima visita alla Biennale d’architettura veneziana ieri conclusasi. All’Arsenale, tranne pochi esempi, l’unica architettura presente era quella dell’antica fabbrica militare, peraltro in condizioni di conservazione pietose; il resto, nella pretesa di rappresentare i cambiamenti radicali di questo decennio, era pura astrazione, pop-art, dark-art, effimera e, perdonatemi la presunzione, inconcludente. Cosa che non è certamente un delitto ma, appunto in tempo di crisi e difficile riequilibrio delle società mondiali, è almeno fuori tempo e fuori luogo. Quello che mi dà da pensare è che, a ogni Biennale, questa tendenza cresce. Pericolosamente.