Può sembrare strano associare il non costruito, il vuoto urbano, all’architettura. L’epoca in cui viviamo si caratterizza in verità per una sorta di agoràfobia, una spinta all’occupazione fisica totalizzante dello spazio, in cui conta solo il sistema di oggetti che in esso si rincorrono. Eppure l’idea stessa di architettura ha senso solo per il fatto che questa si materializza attraverso il controllo dello spazio e con la luce, cioè dire con la creazione di un ambiente nel quale ci si possa immergere e da questo e con questo scambiare emozioni oltre che prestazioni.
La verifica di questo concetto la possiamo trovare, sin dall’antichità, nel valore che al vuoto veniva dato nelle più diverse culture. Basta ripensare al valore sociale, urbanistico, architettonico della piazza, spazio collettivo fatto per la socializzazione, per l’interscambio, per la connessione delle idee e degli affari. Avveniva già nella Grecia antica, nell’Impero Romano, è avvenuto nel Rinascimento e nel Barocco dove la piazza era lo spazio di mediazione tra il potere religioso e quello temporale.
La piazza come elemento di pausa, camera di compensazione e di genesi delle tensioni urbane, cavità uterina, uovo dal quale prende forma la vita. A questi spazi, a questi vuoti, erano destinati, dovrebbero ancora essere destinati, gesti architettonici e progettuali di grande valenza: Piazza del Campo a Siena vale, come luogo, quanto e più delle quinte architettoniche che vi si affacciano. Il tridente romano delle vie del Corso, Ripetta e del Babuino ha valore per le prospettive che si riescono a cogliere da Piazza del Popolo, elemento al contempo generatore delle tensioni di sviluppo e luogo di compensazione, pausa, di queste tensioni.
Dicevamo il vuoto come pausa, che nel suo alternarsi al pieno diventa ritmo, l’alternarsi di suono e silenzio, pieno e vuoto che costruiscono, in musica come in architettura, l’ambiente, luogo dove la vita si forma e si svolge.
Il disegno del vuoto, della piazza, nel passato ha assunto connotazioni cosmologiche nel richiamo alle orbite planetarie dato dalle piante centrali rinascimentali così come nelle ellissi barocche.
Oggi il vuoto, nelle nostre povere città, viene quasi mai disegnato, è per così dire uno spazio di serie B da riempire di auto anche quando si tratta di elementi del tessuto urbano storico.
Al progetto del vuoto viene dedicato qualche piccolo esercizio, quasi sempre solo teorico, che non trova, se non parzialmente e frettolosamente, la sua traduzione in atti concreti.
Solo per rimanere alla nostra realtà cittadina, l’ultimo grande progetto di spazi urbani risale a qualche anno fà con il concorso delle cinque piazze botaniche di cui purtroppo si è persa traccia.
Invece sono stati costruiti dei grandi vuoti, privi di segno e qualità, destinati ad essere riempiti d’auto e che neanche questo riescono a fare, luoghi che dovrebbero essere annullati e ripensati per dar vita alla relazione urbana tra vuoto e pieno.
Basta ricordarsi del rapporto duale tra questi due elementi, presente nella dialettica e in altre arti come la pittura o in altre culture. Cos’è che vale infatti nelle grandi opere di De Chirico se non l’inquadramento prospettico che il vuoto-piazza garantisce al contorno ed al paesaggio? E’ un po’ il codice binario 0-1 o lo Yin e Yang delle culture orientali, elemento ricettore e potenza attiva: non esiste l’uno senza l’altro.