La città è fatta dalle relazioni tra costruito e paesaggio, tra economia e socialità, tra potere e dovere, tra pieni e vuoti, cioè costruito e non costruito, anche se l’organizzazione del vuoto è, di per sè, costruzione. Tema avviato già la settimana passata e che oggi riprendiamo, per ribadire che la relazione tra gli edifici, gli oggetti architettonici, e gli spazi di relazione, i vuoti, è simbiotica, dall’una dipende l’altra e viceversa.
E’ in questo senso molte città italiane soprattutto meridionali, anche la nostra, sono da considerarsi città bloccate ad un’epoca storica remota.
La nostra, ma anche i paesi che ne costituiscono l’area metropolitana, è sostanzialmente bloccata al settecento: bisogna infatti risalire al piano del Duca di Camastra per osservare un progetto di relazione tra spazio pubblico e privato, tra pieno e vuoto, degno di nota. Mi riferisco al sistema delle piazze lungo via Etnea nate certamente per uno spirito utilitaristico -di protezione civile diremmo oggi- ma che con le loro pause -il silenzio architettonico- direbbe Renzo Piano, contribuiscono a definire un ambiente urbano di suggestiva bellezza, in simbiosi appunto con le architetture che le contornano. Dopo di allora solo pochissimi e a-sistematici episodi, per lo più privi di qualità.
La nostra è una città bloccata perché, allo stato, non è possibile immaginare una ricomposizione della città densa, ovviamente del Centro Storico -patrimonio da custodire gelosamente anche se con un po’ più di intelligenza- ma anche della città del dopoguerra, quella dei palazzinari, quella della massima occupazione del suolo, a volte con bassissime densità, priva di qualità. E pure questo ci porta, ci ha portato, alla continua espansione dei confini della città stessa, occupando per cerchi concentrici o per direttrici suolo agrario e campagna, creando a volte ghetti abitati, culla di degrado e asocialità. In tutto questo è logico, e perverso, che non ci sia attenzione allo spazio urbano che significa attenzione alla qualità architettonica.
Ecco perché è necessaria e indifferibile, come si usa dire, una nuova stagione di governo del territorio, che si ponga l’obbiettivo della riqualificazione urbana nella logica sia della sostenibilità energetica che del consumo razionale del territorio, nella logica della sicurezza fisica dell’abitare
-perché dei terremoti ci si può per qualche tempo dimenticare però ritornano- nella logica di rimodulazione di case, servizi, mobilità, adattandoli e precedendo le nuove modalità di vita e di relazione, i nuovi modelli economici della società che non è più locale ma globale, anche nel profondo sud.
Non è più rinviabile una stagione della ricomposizione delle città -della nostra città- che non può prescindere dalla sostituzione edilizia, quella rottamazione di cui a volte vi ho parlato, che renda più razionale ed efficiente l’uso del suolo già occupato e urbanizzato e limiti l’espansione dei confini della città. Ecco perché forse è necessario immaginare un piano-casa (?), che non sia il topolino partorito dalla montagna statale e regionale, ma un piano-città che si ponga seriamente il problema di rendere appetibile al capitale privato investire nella riqualificazione ambientale, energetica, strutturale, estetica del tessuto costruito. Senza dimenticare il social-housing da non relegare nei ghetti delle aree 457 o PEEP, che distruggono suolo e creano disagio sociale. Quasi sempre.