La Costituzione italiana, fondata sul lavoro, garantisce la dignità e l’uguaglianza dei suoi cittadini, riconoscendo il diritto al lavoro e promuovendo le condizioni che lo rendano effettivo. Non è scritto esplicitamente ma credo di non sbagliare se dico che questo diritto include quello all’equo compenso per l’opera prestata. Ora sappiamo tutti che molte discussioni si sono aperte sulla necessità di aggiornare la Carta Costituzionale e quanto questo processo sia delicato, difficoltoso. Ebbene sul diritto al lavoro e sull’equo compenso esiste un aggiornamento (?) di fatto, almeno per una particolare categoria di lavoratori, quelli della conoscenza -per dirla all’inglese i knowledge workers- specie architetti e ingegneri.
Per questi infatti, grazie alle politiche messe in campo nella passata e pur breve legislatura con il supporto dell’Autorità garante, si è affermato il principio che la loro remunerazione possa legalmente tendere a zero.
Un’esagerazione? Vediamo un po’.
Le distorsioni del mercato dei servizi per l’ingegneria e l’architettura date da una domanda di servizi tra le più basse al mondo coniugata con la crescita esponenziale del numero dei liberi professionisti hanno prodotto un sistema per il quale le gare di progettazione, già sbagliate perché si svolgono sulla base di indici di fatturato e non della qualità progettuale, si aggiudicano con offerte al ribasso nell’ordine del 70-90% e quindi tendenti a zero. Come dire, facendo un semplice paragone, che è possibile acquistare un’auto del valore di 50000 Euro a prezzi tra 15000 e 5000 Euro. Come se non bastasse, con la scusa della crisi economica e dei trasferimenti ai Comuni, alcuni, sempre di più, di questi promuovono gare e occasioni di lavoro (?) che prevedono compensi nulli, sì zero Euro, perché non ci sono soldi e bisogna pur partecipare ai bandi europei.
Và meglio nel mondo della ricerca e dell’Università? Vedete un po’ voi: nel passato gli Istituti universitari affidavano contratti di ricerca e docenza sulla base dei titoli e del valore cultural-professionale; oggi il requisito principale, più spesso di quanto non si creda, è quello di non richiedere compenso.
Ora, per dirla alla Lubrano, qualche domanda sorge spontanea: come si legano queste condizioni con il diritto costituzionale che ha in Parlamento tanti solerti difensori? Come si chiama il lavoro (?) che si deve prestare senza o quasi compenso? Quale azienda può garantire la propria sopravvivenza se è costretta a (s)vendere il proprio prodotto ad una frazione infinitesimale del suo valore?
E ancora cosa accadrebbe se, che sò, la Fiat chiedesse di pagare gli operai con un salario pari al 10 % di quello sindacale? Oppure in Italia i diritti costituzionali valgono solo per alcuni e non per altri?
Comunque sia non è difficile prevedere che il mercato, quello vero, si adeguerà al perdurare di questo stato delle cose: con la sempre più rapida riduzione della qualità dei servizi che le professioni offriranno, con la crescita delle sofferenze delle Casse di previdenza che dal reddito dei professionisti traggono le risorse per far fronte alle prestazioni; in prospettiva con la scomparsa del patrimonio di conoscenza e di ricerca che le professioni hanno sin qui assicurato.
A meno che il Governo, se ne esiste uno, non si decida ad una rapida revisione degli errori, non so quanto casuali, fin quì fatti che gravano sulla competitività del sistema Paese.