Creatività di genere? Non ha senso

Tra i pochi architetti di sesso femminile capaci di cavalcare la scena mondiale, Odile Decq e Zaha Hadid rappresentano due modi diversi di concepire l’architettura ed il mestiere dell’architetto; non basta la lieve differenza d’età tra le due, circa cinque anni, a spiegare questa diversità.

Odile, più giovane, al di là dell’aspetto da dark-lady, viene da una solida formazione universitaria e poco concede, nelle sue realizzazioni, alla spettacolarizzazione dell’architettura propria delle archistar. Al contrario il suo è un approccio pragmatico, funzionale, rispettoso del fine per cui un’opera viene progettata e realizzata.

Zaha, esuberante anglo-irachena, ha sempre ricercato nelle sue realizzazioni un nuovo modo di concepire lo spazio attraverso il dinamismo delle forme, matrice costante in tutte le sue costruzioni,  anche al di là delle considerazioni pratiche sulla loro usabilità: la stazione dei pompieri per la fabbrica Vitra, prima sua opera di rilevanza internazionale, diventata molto presto uno spazio solo auto celebrativo, ne è  un esempio paradigmatico.

Ambedue i personaggi, nell’ultimo decennio, hanno avuto occasione di operare in Italia, nella stessa città -Roma- su uno stesso tema, lo spazio museale: il Macro realizzato da Decq ed il Maxxi realizzato da Hadid ed ambedue recentissimamente inaugurati.

Ed il confronto tra queste due opere mette in risalto i diversi approcci, al di la delle differenze dimensionali.

Il Maxxi di Hadid vuol stupire l’osservatore, spiazzarlo e meravigliarlo con l’intreccio dei percorsi che creano veri e propri flussi di  movimento,  cui poco importa delle opere d’arte che dovrebbero mostrare. In fondo, nella visione della sua autrice, il museo è già ampiamente rappresentativo dell’arte in se stesso ed assolve alla sua funzione anche senza il contenuto.  In questo senso è coerente a tutto il suo percorso professionale, autoreferenziale e spettacolare, anche se di grande pregio.

Al contrario il Macro di Decq si pone al servizio dell’arte e dei suoi fruitori, ne accompagna il percorso e offre diverse prospettive d’osservazione tenendo conto del contesto particolare, la Città Eterna, della quale vuole ricordare la sua trama urbana, i suoi improvvisi spettacolari slarghi.

Ecco, questo paragone all’immagine urbana forse rende più chiaro il diverso approccio delle due opere sia rispetto all’arte che rispetto al contesto.

Il museo di Zaha Hadid ricorda la fantasmagoria degli snodi autostradali di Los Angeles, nei quali il moto perpetuo, gli incroci di questi flussi e la velocità con i quali avvengono ne è la ragione fondante.

Il museo di  Odile Decq  riprende la lentezza contemplativa dei vicoli romani, un ottimo sistema per osservare, apprezzare, meditare sulle opere d’arte che sono la ragione dell’esistenza del museo. La traduzione architettonica, se possibile, del diverso aspetto caratteriale dei due personaggi: imponente, glaciale, a volte, dicono, irascibile e pur amatissima Zaha Hadid,  invece impertinente, divertente e pur serissima che alla spettacolarizzazione si concede solo nell’ invenzione di qualche dettaglio costruttivo  Odile Decq.

In ogni caso due grandi personaggi che con la loro opera evidenziano, per dirla con la Decq, che non esiste un’architettura coniugata al “femminile”; esistono solo architetti diversi ognuno dei quali fa il proprio lavoro. Ed è proprio un bel lavoro.

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