Mario Botta e Tadao Ando, praticamente coetanei (sono due (ex?) ragazzi oramai quasi settantenni) rappresentano due percorsi professionali abbastanza paralleli pur essendo svizzero l’uno giapponese l’altro. Fanno parte dello star-system dell’architettura mondiale ma in posizione più defilata, forse più simpatica, rispetto alle archistar che oggi occupano le pagine dei media quasi fossero attori o cantanti di grido.
Ambedue hanno cominciato la loro attività costruendo piccole case, ma grandi architetture, il cui carattere comune era quello di affidare la costruzione al rapporto tra spazio, materia cruda e luce, priva cioè di quegli orpelli ed effetti speciali che oggi siamo abituati a vedere. Pur nella diversità del loro percorso formativo, universitario quello di Botta anche se arricchito dalle collaborazioni con giganti dell’architettura del novecento quali Le Corbusier e Khan, autodidatta, fatto sulla strada (letteralmente) e solo da non moltissimo “ufficializzato” quello di Ando, hanno raggiunto il successo mondiale attraversando le mode senza rinnegare se stessi e la loro visione dell’architettura nel tempo e nello spazio. Anche passando attraverso qualche crisi ideativa, forse dovuta alla esplosione delle commesse e quindi alla necessità di produrre una grande quantità di opere in poco tempo, che li ha portati in qualche caso ad essere i manieristi di se stessi. Crisi che hanno saputo superare con la maturità e l’impegno per ritornare, con le opere più recenti, alla poesia propria dell’architettura che, in ambedue, viene coniugata con la consapevolezza della propria estrazione culturale e geografica. La padronanza dei volumi che si riscontra nelle opere di Botta è sottolineata dall’uso di materiali poveri sapientemente abbinati: il mattone di cemento o di cotto con il cemento crudo; Ando, per realizzare le sue poesie architettoniche ha bisogno, quasi esclusivamente, di semplice cemento lisciato e vetro .
Sono bastati e ancora bastano questi semplici elementi raccordati, valorizzati, smorzati dalla luce e dalla composizione dei volumi per creare l’emozione, senza bisogno di svettare oltre le nuvole o di effetti speciali, che è quello che l’Architettura, insieme al soddisfacimento di bisogni reali, deve avere per esistere. Certo non li coglieremo mentre pontificano su questioni politiche o sui massimi sistemi del mondo, magari saranno poco presenti sulle pagine di riviste di moda patinate, ma credo che le loro opere, con i pregi e le contraddizioni che ne fanno parte integrante, resteranno fra le architetture veramente significative dell’era post-razionalista. A differenza di altre star che, pur partendo da altrettanto solide e felici esperienze, hanno preferito rincorrere il successo attraverso l’artificio ed il sensazionalismo, molto estetico e poco etico.
In fondo tutti e due, rappresentano l’aspetto pulito, reale di quel concetto “minimalista” dell’architettura dei nostri tempi, che si è via via purtroppo trasformato in fenomeno consumistico, ben oltre la sua reale componente etica, e non hanno bisogno, per stupire, di contraddire le leggi della fisica e della geometria.
Per chi ne avesse voglia, segnalo due opere che potrete facilmente visionare sui siti internet che, da sole, valgono più di mille parole: il Casinò di Campione d’Italia per Mario Botta e il Museo della Letteratura in Himeji City per Tadao Ando.
Fatemi sapere.