I premi e le star internazionali

L'assegnazione del Pritzker, una sorta di Nobel per l'Architettura, a Toyo Ito offre spunto per una riflessione sul rapporto che l'Italia ha con le opere delle grandi star internazionali. Si perchè, prima di Toyo Ito, autore in Italia di una poco fortunata installazione a Pescara, altri premi Pritzker hanno avuto occasione di misurarsi da noi e tutti con qualche problema. L'elenco è lungo, a partire da Richard Meyer con l'Ara Pacis a Roma, Kenzo Tange con il quartiere di Librino a Catania, Ghery con il nuovo ingresso di Venezia, Piano con l'Auditorium di Roma, Koolhaas con il suo progetto per il Fondaco de' Tedeschi a Venezia, fino a Zaha Hadid con il suo Maxxi sempre a Roma. Senza dimenticare le vicende veneziane di Le Corbusier e di Santiago Calatrava. Tutte opere di autori, celebrati e contesi in campo mondiale che in Italia, invariabilmente, hanno avuto ostacoli, difficoltà, sono state oggetto di grandi polemiche e, molto spesso, non realizzate.

La riflessione si può dirigere su due versanti. Il primo afferisce alle condizioni, diciamo così ambientali, con cui l'architettura contemporanea deve misurarsi in Italia. E delle due l'una: o questi grandi architetti non sono così grandi e, a un esame tecnico, culturale e metodologico molto approfondito di cui l'Italia è (?) capace mostrano i limiti di una considerazione basata molto sulla risonanza mediatica e poco sulla sostanza, oppure dobbiamo registrare che da noi non ci sono le condizioni culturali, legislative, di apertura verso l'innovazione di cui l'architettura contemporanea è portatrice. Riflessione che ha come presupposto logico che le condizioni "ambientali" di cui parlavo sono in grado di far germinare una elevata qualità diffusa delle trasformazioni territoriali al confronto della quale le grandi archistar e le loro opere perdono appeal culturale, tecnico e artistico. Beh, mi pare di poter dire, non rischiando grandi smentite, che la qualità diffusa delle opere d'architettura, grandi o piccole, in Italia semplicemente non esiste o è limitata a sparuti esempi e allora, a meno di considerare tutti indistintamente i professionisti italiani incapaci o poco più, forse vuol dire che quelle condizioni "ambientali" non favoriscono certamente l'architettura contemporanea.

Il secondo versante, opposto ma non tanto al primo, riguarda il sistema con cui queste grandi opere vengono solitamente assegnate: cioè dire se questi affidamenti importanti e le risposte progettuali che generano sono consapevoli e si relazionano con il delicato contesto culturale e territoriale in cui si svolgono. A me pare che, a volte da un pò di anni a questa parte, i progetti delle grandi firme dell'architettura sono semplicemente autoreferenziali, rispondono cioè non alle necessità e ai presupposti per cui si programma un'opera ma al desiderio di visibilità della committenza piuttosto che dell'autore. Vengono proposti oggetti tridimensionali indifferenti al luogo, espressione di un'abilità formale, simbolo di un modo d'apparire piuttosto che di essere. E allora capita, anche a torto, che essi vengano sostanzialmente rifiutati dalla collettività o dall'establishment burocratico oppure, e questo è un problema tutto italiano, entrino nella perversa spirale dell'esecuzione a prezzi formalmente di saldo ma a cui si cerca di porre poi rimedio con strategie riduttive in termini di qualità quando non peggio. In ogni caso ciò vuol dire solo che il sistema è malato.

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