Negli anni ’30 Elton Mayo, psicologo e studioso di etica, si occupò dei problemi causati dalla evoluzione industriale nelle relazioni umane: il passaggio da una società fatta di certezze e tradizioni ad una nella quale la serializzazione e l’automazione spingevano verso un’efficienza economica distinta dall’individuo, con il fine di aumentare la produzione, aveva come presupposto che le culture, le tradizioni fossero elementi di disturbo in quanto incentrate sull’individuo e non sulla massa-forza lavoro, per giunta sempre meno necessaria perché sostituibile da macchine capaci di operazioni seriali, anche intellettivamente complesse.
L’economia già allora, come ora, si indirizzava verso l’aumento della produzione e la contestuale riduzione dell’apporto umano e, se da un lato ciò ha aumentato il tempo libero, dall’altro ha creato il fenomeno della disoccupazione tecnologica, peraltro solo in parte controbilanciata dalla richiesta di lavoro, intellettuale e manuale, per la produzione di macchine e dalla maggiore disponibilità di tempo per l’apprendimento.
Già in quell’epoca si prefigurò l’avvento di una società che, superando la divisione tra capitalismo e marxismo, si predisponeva alla sostituzione della democrazia parlamentare, attraverso una sorta di “rivoluzione dei tecnici”, con un governo della società gestito da tecnocrati che, con l’aiuto di “macchine pensanti” (i computer), poteva essere in grado di valutarne statisticamente le necessità e su questi dati governarne sviluppi e relazioni.
Non è difficile oggi constatare come le previsioni ( allora forse apocalittiche) di Mayo e della sua scuola abbiano avuto una qualche attuazione. La recente crisi globale dell’economia e le misure per la sua risoluzione sono state determinate in gran parte da “ tecnici”; molte persone, sulla base della specializzazione e della divisione del lavoro, diventano con facilità produttivamente inutili e quindi espulse dal mondo del lavoro; il “mercato” conta più dell’uomo e dell’etica.
Il potere dei tecnocrati di Bruxelles e delle Autorità (una sorta queste di super-governo non elettivo), con la parvenza della tutela dei diritti del consumatore, finisce spesso per inutilmente vessare l’individuo-produttore specie quando questo opera in base a tradizioni e culture locali, che, di fronte al dato statistico o all’interesse della grande produzione, perdono valore.
Non è escluso da questo stato di cose il mondo dell’architettura, che poi è il mondo dell’uomo e del suo spirito. Via via è stato ridotto il senso del “progetto” come opera dell’ingegno e quindi atto unitario, sostituito da una serie di atti separati a cura di attori diversi. La ricerca di un’esasperata funzionalità meta-economica, del progetto e dell’opera, propria di culture meno umaniste che quella latina, ha avuto partita vinta senza neanche un minimo di resistenza critica, ed oggi assistiamo alla disvalorizzazione del lavoro intellettuale oltre che alla realizzazione di edifici indifferenziati in diversi ambiti del pianeta, alcuni dei quali, per espressa ammissione, prescindono dall’essere volti al soddisfacimento di bisogni reali.
Bisognerebbe interrogarsi se questo modello, che subiamo/importiamo senza darcene troppo pensiero, in realtà sia così vantaggioso come ci si vuole far credere. La recente Sentenza sulla presenza del Crocefisso ne è purtroppo solo l’ultimo esempio.
A quando il falò in piazza dei libri della memoria di un popolo?