La crisi delle professioni intellettuali

Ho già scritto su queste pagine che la crisi avrebbe avuto anche degli effetti positivi;  uno di questi è la scoperta (?) che le difficoltà dell’economia stanno pesantemente falcidiando in termini reddituali ed occupazionali il mondo delle professioni, e che questa perdita avrà gravi ripercussioni rispetto alla competitività del sistema Paese: anche il Corriere della Sera, nell’edizione di Lunedì 21 Settembre scorso, ha dedicato più pagine all’argomento. Per scoprire, tardivamente, che trecentomila professionisti circa hanno già perso o stanno perdendo il loro lavoro, che gli studi professionali, dai più grandi ai più piccoli, perdono progressivamente la possibilità di restare sul mercato o di restarvi in maniera efficiente ed utile.

Dico tardivamente, perché già all’indomani dell’approvazione del decreto Bersani, di quel Bersani che oggi si propone quale mentore della rinascita del PD, avevamo modestamente anticipato l’attuale situazione, e cioè che esisteva, anche se non evidente alla pubblica opinione, un forte stato di disagio nel mondo professionale -specie in quello che interessa questa rubrica- che i provvedimenti bersaniani  avrebbero aggravato, soprattutto perché non accompagnati da quel necessario corollario di riforme che le avrebbero rese sostenibili. La stessa Antitrust, nelle conclusioni della sua indagine univocamente orientata alla penalizzazione dei professionisti, non poteva far a meno di riconoscere che le misure di liberalizzazione (sulla cui non opportunità ed utilità mi sono già più volte espresso) potevano essere convenientemente applicate solo  ad un mercato “sano”.

Ora, come fà ad esser sano un mercato dove si sono introdotti, alla faccia delle presunte barriere, migliaia di  professionisti o pseudo tali, dove le occasioni di lavoro sono di per sé limitate e penalizzate ulteriormente da un apparato normativo-burocratico veloce come una tartaruga e privo di certezze, dove il pagamento degli “onorari” (… ma possiamo definirli onorevoli?) non è un fatto assodato ma una semplice opzione per certa committenza, aiutata in questo dalla quasi impossibilità di procedere al loro recupero stante i tempi biblici degli italici Tribunali, dove il livello di tassazione è esponenziale e, per di più, ai professionisti sono negate anche quelle agevolazioni creditizie e finanziarie concesse alle altre categorie economiche; dove, per ultimo ma potrei continuare, la riforma delle professioni non si riesce a farla, malgrado gli stessi professionisti la chiedano da anni, con la scusa delle presunte resistenze che questi hanno fatto.  Sarebbe facile sostenere che le resistenze, se vi sono state, vi sono state  solo per quegli aspetti che la politica  pretendeva  inserire e che avrebbero di fatto annullato l’essenza stessa del lavoro-prestazione intellettuale. In presenza di tutto questo e non solo, già il mercato della professione di ingegnere ed architetto era  un mercato “fallito” e, ovviamente,  la crisi mondiale non poteva che aggravare, fino al limite del collasso, difficoltà generate da presunzione, malanimo, interessi di particolari lobbies.

Quello che sorprende, ed è inaccettabile, è che i soliti soloni sostengano che, per risollevare questo mercato e non perdere un intero patrimonio generazionale di competenza ed intelligenza, che rappresenta circa il 12% del PIL, bisogna incrementare proprio quelle misure che questo stato di cose hanno generato come e più della attuale crisi finanziaria.

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