Abbiamo un nuovo stile architettonico si chiama «incompiuta». Sicilia in testa

La televisione, si sà, rappresenta l’esemplificazione dell’effimero, della dissacrazione, salvo a volte esser capace di generare fenomenologie mediatiche che, con la leggerezza dell’ironia, sono capaci di indurre alla denuncia ed alla riflessione sui mali e sui vizi della nostra complessa società.
Striscia la notizia, tra una velina poco vestita ed una battuta da cabaret, da vent’anni ci mostra come siamo e come ci comportiamo. Ci mostra i mali dell’Italia che viviamo, tra i quali spicca l’esistenza di opere pubbliche e non incompiute. Ve ne sono in Italia oltre trecentocinquanta con un importante contributo, purtroppo, della Sicilia dove se ne contano ben più di centocinquanta, tanto che qualcuno ha coniato una definizione di questa attività: l’incompiuto siciliano; Ora la Sicilia è sempre stata un laboratorio, un’incubatore di idee, che poi il resto della Nazione ha importato e fatto suo. Anche in questo caso.
Il fatto singolare è che in Sicilia, come in Italia, vige un rigido sistema normativo e di controllo sulla programmazione, realizzazione e gestione dell’opera pubblica; il che non ha impedito, che si costruissero ospedali mai entrati in funzione, piscine olimpioniche fuori misura, centri culturali lasciati a metà, tratti di autostrada che partono dal nulla ed al nulla arrivano.
Quasi un nuovo stile architettonico che forma una nuova tipologia di monumenti dell’età moderna, incompiuti appunto, come “incompiuta” doveva essere l’opera d’arte di michelangiolesca memoria.
Queste opere abortite segnano il territorio di cui fanno in qualche modo scempio ma, tuttavia, sono testimonianza della nostra epoca schizofrenica, nella quale alla carenza di risorse si risponde spesso con lo sperpero di quelle poche disponibili anche attraverso la duplicazione, a poca distanza, di strutture funzionalmente identiche, a causa del campanilismo imperante e dell’assenza di un piano strategico di investimenti e politica territoriale d’area vasta.
Và detto che non è un fenomeno recente; vi è sempre stata un’Italia monca, certo non in questa misura, a partire dal tempio di greco di Segesta dalle sedici colonne doriche che da duemila cinquecento anni attende invano di avere un tetto.
Possiamo forse parlare di cadaveri della speculazione, del malaffare o dell’inefficienza, tenuto conto che i tempi della politica non coincidono con quelli dell’attività costruttiva. Non è difficile che la gestazione e la costruzione di un’opera attraversi più amministrazioni e le più disparate vicende con i conseguenti ripensamenti, cambi di interesse e strategie che porta, a volte, allo stravolgimento dell’obbiettivo iniziale il quale, quando si riesce ad ultimare il ciclo, rappresenta la stratificazione di volontà ed interessi diversi.
In essa è forse possibile trovare un valore residuo: quello della testimonianza dei nostri mali e delle piccolezze umane, tanto più importante se consideriamo che la cultura europea, di cui quella italiana rappresenta il germe vivificante, si fonda sulla storia dei processi e degli atti degli uomini, con cui tutte le attività devono relazionarsi, operando una sorta di ricucitura nella quale anche l’incompiuto può rappresentare un valore sconosciuto, per esempio, alle culture nord americane ed asiatiche.
Tanto è vero che sono convito, e non sono il solo, che anche da questi sprechi, attraverso l’architettura, è possibile ricavare un nuovo valore ed un nuovo paesaggio.

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