Perché succede che si realizzi un’opera diversa da quella che è stata progettata

Quando più architetti si riuniscono per parlare dei problemi della professione in Italia, delle difficoltà che incontra, del rapporto con il potere politico o con la committenza, nove volte su dieci, specie i più giovani, si trovano d’accordo nell’individuare nel sistema concorso la soluzione ideale , meglio ancora una specie di panacea, a tutte queste difficoltà; il concorso come strumento di democrazia, di qualità urbana e tante belle altre cose.
Affermazioni certamente vere e condivisibili ma che necessitano, forse, di una valutazione più disincantata perché, almeno per come il sistema è strutturato, molte sono le ombre che lo avvolgono.
Tra le prime il fatto che i progetti vincitori di concorso spessissimo non riescono a concretizzarsi in opere costruite. Il che significa che gli sforzi di tanti progettisti, che hanno impegnato tempo e risorse personali affinché una collettività potesse scegliere tra molte la soluzione giudicata migliore, sono stati assolutamente inutili.
Al di là poi della tanto decantata trasparenza, non considerando le possibili pastette e favori tra commissari e partecipanti, non è raro il fatto che l’opera che si realizza sia sensibilmente diversa da quanto previsto nel progetto scelto. Senza andare a casi italiani, è nota la vicenda del concorso per la ricostruzione del Parlamento tedesco il cui vincitore, Sir Norman Foster, aveva progettato un edificio diverso da quello, peraltro mirabile, poi costruito, utilizzando parzialmente un’idea di un altro grande architetto, Santiago Calatrava, nel cui progetto elemento fondamentale era la cupola poi interpretata e costruita da Foster.
Ancora, in tema di democrazia urbana, generalmente le giurie dei concorsi e gli esiti degli stessi, non tengono in alcun conto del gradimento o meno dell’opera da parte della popolazione su cui inciderà. Cosa che a volte ha determinato un rifiuto della stessa e conseguenti proteste.
Altro tema è quello poi relativo all’equità socio-economica di questo sistema, attraverso il quale una parte di lavoratori e contribuenti, i progettisti, si fà più o meno spontaneamente carico, anche economico, di un problema che invece riveste un interesse collettivo: la qualità dell’opera di architettura e del tessuto costruito delle nostre città, principio oramai universalmente riconosciuto.
Questo dato, di per sé evidentemente squilibrato, è particolarmente più grave se visto nell’ambito del sistema fiscale del nostro Paese, dove la capacità contributiva ai fini fiscali viene parametrata anche al monte spese sostenute per l’esercizio di un’attività. Peraltro, francamente, pare assolutamente ingiusta una società in cui esista una categoria di lavoratori ( non mi pare ve ne siano altre oltre a quella dei progettisti) i quali devono farsi carico in proprio di fornire risorse materiali ed intellettuali necessarie al perseguimento di un fine che è di utilità pubblica, senza contare che siffatto sistema limita a pochi la possibilità di accedervi e quindi, di fatto, fallisce nel suo obbiettivo principale, che è quello della scelta attraverso il più ampio confronto tra molte idee.
Diverso sarebbe l’approccio, e conseguentemente i risultati, se con maggior equilibrio e giustizia,
gli oneri di partecipazione ai concorsi di architettura fossero ripartiti sull’intera collettività, in relazione alla valenza sociale connessa all’Architettura che giustifica, anzi richiede, il regime del concorso.

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