Popolazione e attrezzature pubbliche, i nodi da sciogliere del Prg di Catania

Sono trascorsi oltre quarantanni dall’ultima volta che Catania si è dotata di uno strumento di urbanistico compiuto, dei quali gli ultimi passati attraverso tre amministrazioni e molti tecnici e professionisti accorsi al capezzale del nuovo PRG.
Di questo sforzo comincia ad aversi contezza grazie anche ad una politica di informazione che l’Amministrazione ha praticato, esponendosi al confronto con la Società , gli Ordini professionali, i Sindacati, che hanno potuto valutare e commentare le scelte del Piano.
Che, se non altro, ha il merito essersi dato un respiro più ampio dei confini comunali, facendosi carico del ruolo metropolitano cui la Città da tempo assolve.
Con luci ed ombre, con le ovvie e comprensibili contestazioni di merito e politiche connesse ai rilevanti interessi politici ed economici che un PRG deve governare.
Non potendosi qui ragionare sulla filosofia generale del Piano, è forse utile sottolineare alcuni punti di discussione emersi nei numerosi confronti sul tema, il più importante dei quali riguarda forse il dimensionamento demografico e la carenza e difficoltà di reperimento delle aree da destinarsi alle attrezzature pubbliche.
Una puntigliosa analisi demografica estesa al bacino metropolitano ha indotto i progettisti a prevedere, nel prossimo decennio, un notevole incremento degli abitati stimato in circa 80-90mila unità, sia pure a fronte di un decremento, nei quindici anni precedenti, di circa 30mila abitanti. Previsione che ha portato, al fine di reperire le aree pubbliche necessarie, ad individuare le cosiddette Aree Risorsa dove, a fronte della cessione all’Amministrazione pubblica di circa il cinquanta percento della superficie, i proprietari dei suoli possono proporre un progetto di sfruttamento edilizio con una relativa libertà di previsione progettuale. Dicono i progettisti, per avere un piano leggero, non dirigista. Tuttavia, trattandosi di aree piuttosto ampie, è emerso il rischio che, a causa anche di un’auspicabile realizzazione per sottozone, si possa verificare un certo disordine compositivo e un’attuazione a macchia di leopardo. Forse sarebbe il caso che, fermo restando i principi informatori scelti, fosse l’Amministrazione pubblica, almeno per le aree più significative, ad elaborare un progetto urbanistico di indirizzo, una sorta di master-plan dell’area capace di conferire un minimo di organizzazione spaziale, funzionale agli interessi generali. Come pure, parlando di infrastrutturazione del territorio, vi è l’occasione mancata della completa liberazione della Città dalla cinta ferroviaria, non essendo stato possibile prevedere l’eliminazione dei binari che dalla Stazione centrale si dirigono verso Sud, se non, addirittura lo spostamento della Stazione stessa in altra area del territorio. Su questo tema già dal 2003 si è sviluppato un ampio dibattito anche con riferimento alla eliminazione od alla rifunzionalizzazione del viadotto storico conosciuto come gli Archi della Marina. E’ un’occasione perduta per la quale si sarebbe potuto o dovuto insistere di più anche nei confronti delle Ferrovie dello Stato.
Come pure occorrerebbe ancora più coraggio nella definizione di un pur lodevole Regolamento Edilizio nei confronti della promozione della qualità architettonica, con particolare riferimento alla possibilità incentivata di diffuse realizzazioni di architettura contemporanea, di cui in città, al di là di singoli episodi, vi è un gran bisogno.

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