La trasformazione della città corre più veloce della rigenerazione del gusto

La semplice osservazione delle parti storiche nelle nostre città fà notare, ben identificabili, quelle costruite in un certo periodo. Per rimanere nel nostro piccolo mondo catanese è abbastanza agevole riconoscere le parti barocche della città come pure quelle di epoca liberty, anche se questa ultima stagione attende ancora di essere adeguatamente valorizzata.

Ciò perché sino alla fine degli anni trenta era diffusa a Catania, come nel resto d’Italia, una consapevolezza del valore delle costruzioni, il rispetto per un linguaggio del costruire (i colti la definirebbero semantica) che era considerato patrimonio collettivo e che, nelle sue infinite variabili ed articolazioni, ha edificato l’ambiente, il luogo riconosciuto e riconoscibile, della nostra come di altre città. Era, questo, patrimonio  della cultura europea.

Questa condivisone di valori immateriali, faceva sì che qualunque costruzione si andasse realizzando, dal palazzo nobiliare alla piccola modesta casa ad uno o due livelli, si declinasse un linguaggio costruttivo che partiva sempre da una base comune, la cui prima regola, non scritta, era fondata sul decoro pubblico della costruzione.  Questo sistema era, non intenzionalmente, favorito da altri fattori, quali una rigidezza dei sistemi costruttivi, la necessità di sfruttare materiali facilmente reperibili sul luogo, la concentrazione su non molte mani della capacità di progettare e costruire; tutti elementi che oggi non sono riproponibili, anzi costituirebbero un disvalore.

Purtroppo però l’ampliamento delle possibilità di costruzione, di reperire materiali da ogni luogo, la presenza di un numero sempre crescente di tecnici pseudo capaci di gestire il processo costruttivo, in combinazione con l’avvento della speculazione e, via via, di un sistema legislativo ossessivamente attento alla quantità del costruito, piuttosto che alla sua qualità, ha fatto perdere il senso e la responsabilità del costruire.

Ecco perché, nel precedente articolo, si ragionava intorno ad un riequilibrio delle responsabilità e delle prerogative dei progettisti.   Perché la rigenerazione della sensibilità generale su questi temi richiede tempi generazionali, mentre l’attività di trasformazione della città non conosce soste.

Nella mediazione tra gli interessi degli attori della costruzione ed il diritto collettivo ad una città bella, vedo come unica figura quella del progettista. Cui, purtroppo,(e non è un eufemismo), bisogna restituire potere e responsabilità. Il potere di decidere come sarà la sua costruzione, di realizzarla così come è stata ideata ed approvata, dell’autonomia di pensiero che lo pone davanti ad una grande responsabilità: quella di aver modificato l’ambiente e di essere quasi unico responsabile, nel merito o nel demerito, di questa modifica.  L’esercizio di questa, a mio avviso utile e necessaria, responsabilità, presuppone, tra le altre,  l’indipendenza economica e trova il suo equilibrio nella logica del mercato e della competizione globale in cui l’elemento di competizione è, a differenza di oggi, la qualità  del proprio lavoro.

Tutto ciò è forse difficilissimo da realizzare, ma il progresso dell’umanità è basato proprio sulla sfida a quello che è ritenuto impossibile. Leonardo forse non progettava nel 1500 di far volare l’uomo?

 

Giuseppe Scannella

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