Di una Legge per l’Architettura si parla in Italia da moltissimo tempo. Almeno otto i tentativi fatti dal 1999 ad oggi, attraverso appositi DDL, petizioni e sollecitazioni provenienti sia dal mondo professionale che da pezzi della società; come nel caso della proposta -era il 2011- su IL SOLE 24 ORE sostenuta dal sistema degli Ordini fino a quella emersa nell’ultimo Congresso Nazionale degli Architetti italiani, nel Luglio 2018. Molti esponenti politici di varia estrazione si sono cimentati sul tema: Melandri, Urbani, Zanda, Asciutti, Bondi, tutti autori di testi che, invariabilmente, partivano dai principi sanciti dall’art. 9 della nostra Costituzione. In vario modo e misura esse contenevano alcuni punti fondamentali, basati sul riconoscimento del fatto che la qaualità dell'ambiente naturale o costruito è cosa di interesse generale, della particolarità della disciplina architettonica, del valore intrinseco dell’azione progettuale, sulla specificità dei soggetti ad essa chiamati; parlo degli architetti, ovviamente. Accanto a questi fondamenti c’era, in quasi tutte le proposte, la consapevolezza che dovevano svilupparsi azioni verso l’alta formazione, il ruolo di esempio/guida che lo Stato doveva svolgere, il riconoscimento dell’ attività di progettazione e che le condizioni in cui essa si esercita dovevano essere idonee al suo migliore svolgimento, certamente non assimilabile a lavoro d’impresa. Invece, sempre in questi anni e con il solito mantra dell’Europa e delle sue regole -fasullo, in quanto con proprie risoluzioni l’UE si è espressa per il riconoscimento dell’Architettura quale interesse pubblico e, anche, sullo status economico e remunerativo dei liberi professionisti- si è prodotta una normativa che proprio nella direzione del “servizio” commerciale si è sviluppata; tanto da inserire le attività di progettazione (che sono intellettuali, culturali, sociali, solo in parte tecnico-economiche) all’interno del Codice dei Contratti e degli Appalti Pubblici, rendendo possibili enormità come quelle dei progetti ad 1 €. o il “vendere” prestazioni dell’architetto a 169,00 €. all’interno di pacchetti regalo natalizi come nel caso, recentissimo, della Mondadori. Una condizione che, annullando la dignità della professione, ha ridotto di molto la qualità media del prodotto/progetto, ha condotto alla banalizzazione delle trasformazioni urbane a qualsiasi scala, ha trasformato l’Italia, patria dell’Architettura mondiale, in un luogo dove chi può evita di operare. Non a caso gli architetti più dotati, o più fortunati, tendono ad operare prevalentemente all’estero perchè, in qualsiasi parte del mondo, all’Architettura (e a chi la produce) è riservata una grande cura ed attenzione. Per comprenderne i motivi è facile riferirsi all’azione dei Presidenti francesi, alle politiche messe in campo da Barack Obama, alle grandi trasformazioni in Cina, negli Emirati, negli altri Paesi europei… Allora perché? Tante le possibili risposte: la ricerca di libertà e semplicità di manovra di un certo mondo volto al profitto per il profitto, le azioni di lobby da parte di altre realtà professionali che in questa confusione di ruoli hanno trovato spazi, la sempre minore consapevolezza della propria identità da parte dei nuovi laureati che, complice l’alto -sproporzionato- numero e le sempre minori occasioni di lavoro, si sono adattati a funzioni che poco o nulla hanno a che fare con il mestiere del progettista; anche la perdita della concezione sociale del “bello” e una classe politica poco attenta alla prospettiva poiché tesa alla ricerca del consenso e risultato immediato. E invece, la nostra stessa storia dimostra che, nei secoli, la creazione architettonica è sempre stata quel terreno comune nel quale il “popolo” si è riconosciuto come collettività, affidandone la concretizzazione ad opere e ambiti urbani che hanno creato l’identità del Bel Paese. Oggi, allora, c'è bisogno di una Legge per l'Architettura? Credo di sì! Anche se l’architettura non si fa per legge, in queste condizioni sì: per ri-creare le condizioni affinchè essa possa svilupparsi rispondendo ad un’esigenza primaria della collettività. Una Legge che sancisca, una volta per tutte, che il mestiere di progettista non si improvvisa, non è per tutti ed è pericoloso il convincimento che democrazia e concorrenza richiedano che l’ignoranza equivalga al sapere e il valore assoluto del “prezzo” sia un dogma; che la qualità delle trasformazioni dell’ambiente, a qualsiasi scala, non è un lusso ma un diritto per tutti e un investimento sociale dai ritorni molto convenienti, capaci di generare riequilibrio sociale, opportunità, anche welfare urbano. Per ottenerla (non sarà facile) è necessaria una presa di coscienza, un’azione corale, che veda le rappresentanze della professione, le intelligenze del Paese, i singoli professionisti tutti tesi, ciascuno per le proprie possibilità e funzioni, verso l’obbiettivo. Sostengo da tempo, dove ho potuto farlo, che per questo obbiettivo vadano usati tutti i mezzi lecitamente disponibili: il marketing, la sensibilizzazione pubblicitaria nel senso della divulgazione della conoscenza, le azioni dimostrative… tutto però in un sistema professionalmente e scientificamente coordinato. Occorrerà, per fare passi in avanti, anche fare qualche passo indietro, qualche rinuncia e, sarà forse non decisiva ma sicuramente importante, l’azione dei tanti testimonial di cui si può disporre, anche se qualcuno di essi al momento nicchia; se le azioni saranno valide e condivisibili probabilmente non ci sarà più bisogno di sollecitarne la partecipazione. Verrà da se!