Uno dei mantra che -da tempo- sentiamo ripetere è la parola “semplificazione”. L’Italia, in effetti, è un Paese complicato e bisogna semplificare. Solo che la “semplificazione”, inevitabilmente e in qualsiasi ambito, si traduce -negli effetti pratici- in ulteriori complicazioni, spesso al di là del ragionevole. Esempi ce ne sono tanti, a partire dalla famosa Legge Merloni che, negli anni novanta, si pose l’obbiettivo di moralizzare l’ambiente degli appalti pubblici; i risultati (?) sono sotto gli occhi di tutti e a distanza di quasi tre decadi siamo alla ennesima riscrittura senza aver cavato un ragno dal buco, anzi. C’è stato poi il DPR 380/01 con il quale si intendeva riordinare il sistema dei titoli abilitativi edilizi; varie volte aggiornato, spiegato, chiarito ma non passa giorno senza che le varie corti di giustizia –da quelle periferiche fino al C.d.S.- non emettano sentenze a volte contraddittorie, spesso per argomenti e temi di bassissimo profilo. Non parliamo poi del sistema fiscale che tra split payment, reverse charge, fatturazioni elettroniche e altre piacevolezze, richiede che tutti i contribuenti, dall’artigiano della Val di Noto alla grandissima industria, si dotino di uffici di consulenza sempre più oberati di lavoro e costosi. L’obbiettivo è stato sempre uno, semplificare e moralizzare: sulla moralizzazione non dico stante l’evidenza, sulla semplificazione la domanda è… per chi? A ben vedere la semplificazione è stata rivolta, quasi a senso unico, in favore della pubblica amministrazione, quindi molti adempimenti e responsabilità che le sarebbero propri sono stati posti a carico del cittadino e dei professionisti. Se avete pazienza di leggere il contenuto del link allegato- sulla fatturazione elettronica ma è solo un esempio- vi renderete conto di quest’affermazione: non essendo l’amministrazione in grado di effettuare efficaci controlli sulla fedeltà delle dichiarazioni hanno pensato bene di complicarci la vita con procedure assurdamente farraginose che, come spesso accade, porteranno a risultati opposti a quelli sperati. Non è diverso nell’ambito della filiera edilizia, anche quella privata. Faccio solo un esempio, banale: prima del recepimento del DPR 380/01 in Sicilia, per le piccole opere interne agli edifici bastava una comunicazione del proprietario accompagnata da una semplice relazione asseverata, redatta da un professionista abilitato, attestante il rispetto dei requisiti di legge. Oggi, con la semplificazione, la procedura consiste nella compilazione on-line (quando i siti funzionano) di un modello che consta di molte pagine, con decine e decine di dichiarazioni a cura del malcapitato tecnico, il quale deve asseverare, poco manca, anche il DNA del proprietario. Risultato: una procedura burocratica che prima richiedeva al massimo quattro ore di impegno, oggi occupa almeno due giorni se, e ripeto se, tutte le informazioni richieste sono immediatamente disponibili; rapportate questo alla complessità del patrimonio edilizio e vi renderete subito conto di quante volte questo caso fortunato possa verificarsi. Nel mio settore assistiamo ad un altro fenomeno: lo svuotamento del ruolo progettuale del professionista tecnico. Sempre più, contrariamente anche ad alcune indicazioni legislative, si porta il ruolo del progetto all’interno della P.A. lasciando al sistema della libera professione compiti collaterali e secondari e di ciò siamo costretti a parlare, ogni giorno. L’ultimo esempio è quello messo in campo dall’attuale compagine governativa con la centrale unica di progettazione presso il Ministero delle infrastrutture: 250 tecnici appositamente assunti dovrebbero occuparsi di redigere progetti per le amministrazioni locali e, anche, immaginare edifici tipo ripetibili sul territorio; ciò per ridurre le difficoltà degli enti locali a dotarsi di progetti adeguati, per “semplificare” il loro compito. Ora, mi chiedo, quanti progetti riusciranno a fare 250 tecnici, 400 l’anno? Bene, in Italia ci sono 8000 comuni senza contare gli altri enti; mettiamo che solo la metà di essi richiedano un solo progetto in un anno. Occorrerebbero 10 (dieci) anni per sopperire alle esigenze di metà comuni per un anno! Senza troppi giri di parole è evidente, anche agli stolti, che una simile struttura ha tutte le caratteristiche di un ennesimo carrozzone statale di stampo clientelare, che nessun problema strutturale potrà risolvere comportando, ragionevolmente, nuovi costi per lo Stato. L’esempio, per altro, fa scuola: la Sicilia, proprio pochissimi giorni fa, ha pensato bene anch’essa di istituire la centrale unica di progettazione, con ben 50 tecnici che dovrebbero governare i problemi, immensi, di una regione con 5 milioni di abitanti e uno stato del territorio e delle infrastrutture molto vicino, in alcuni casi e per difetto, a quello del terzo mondo. Nel frattempo migliaia di professionisti tecnici e progettisti ad alta specializzazione si occuperanno, forse, di certificati e asseverazioni. E’ il mondo alla rovescia e sta quì la ragione del titolo: “quid hic in hac”; che cosa c’entra, “cchinnicchinnacchi” nella mia lingua…e soprattutto, “cui prodest”, a chi giova?