Nel panorama mondiale l’Italia rappresenta un’anomalia. Basta confrontare il numero di architetti iscritti all’albo in rapporto alla popolazione, dove si registrano 2,6 architetti ogni 1000 abitanti contro una media europea di 1 ogni 1000. Questo dato, di per sé aberrante, è ancor più grave se si consideri che il mercato potenziale per un architetto italiano è di circa 100mila euro annui contro una media europea che supera il milione; non basta ancora, perché altra grave anomalia italiana è costituita dal fatto che, mentre in Europa (e in quasi tutto il resto del mondo) la figura professionale dell’architetto è l’unica abilitata a governare le trasformazioni territoriali a qualsiasi scala, nel nostro Paese esistono oltre 200mila ingegneri e 100mila geometri, senza contare altri che ambiscono e a volte ci riescono, che a vario titolo occupano una fetta del mercato delle progettazioni. Ma come si è arrivati a tutto questo? Non c’è dubbio che il mestiere dell’architetto ha avuto tradizionalmente un’aurea di prestigio e la percezione di una certa facilità di guadagno (porsche, pipa e foulard secondo un superato stereotipo maschilista) cosa che ha contribuito, nei decenni passati, al continuo incremento degli iscritti alle facoltà mitigato però da una più efficace selezione intra e post corso di laurea. Si è successivamente innescato un fenomeno che ha visto proliferare le sedi universitarie (e il numero delle cattedre), letteralmente esploso dopo l’emanazione del DPR 328/01, con il quale si sono “inventati” percorsi accelerati e figure professionali ibride. Anche il criterio di finanziamento statale delle università ha contribuito: nel momento in cui l’accesso ai fondi è stato legato al numero dei laureati, la loro selezione durate il corso di studi ha avuto, eufemisticamente, maglie ancora più larghe così come il filtro finale dell’Esame di Stato. Tutto questo non poteva essere senza conseguenze (che sono gravissime, anche per il sistema Paese e la sua economia) ed ecco misurarsi, negli ultimi anni in crescendo insieme alla perdita di appeal e del valore sociale della professione, la progressiva riduzione del numero degli iscritti alle facoltà, certificata dai risultati della partecipazione agli ultimi test di accesso nei quali molti posti disponibili sono rimasti scoperti (- 20% di aspiranti rispetto al 2016 e questa è cosa paradossalmente positiva); tuttavia, rispetto ad un “recipiente” già di suo traboccante, l’immissione comunque di altri “liquidi” non può che portare alla loro perdita e quindi sempre troppo alto rimane il numero dei nuovi iscritti ogni anno. Poi, è chiaro che nel grande numero aumentano proporzionalmente figure non all’altezza, costrette quindi a barcamenarsi in lavori collaterali… Logica vorrebbe che lo Stato, cui insieme alla Politica compete la responsabilità, attuasse la programmazione dei percorsi formativi in relazione agli sbocchi professionali possibili ma, al momento, non pare sia così. Cosa fare allora… Non credo esistano ricette miracolose o indolori. In un “mercato” asfittico e saturo che tale sarà, senza correzioni, ancora per alcuni anni, dovremmo forse immaginare di ridurre sensibilmente i nuovi accessi anche per non creare, a caro prezzo per la collettività, migliaia di ulteriori disoccupati e/o migranti senza barconi; una informazione questa che dovrebbe essere oggetto di una più precisa comunicazione ai ragazzi e alle famiglie, perché facessero scelte consapevoli… Senza ricorrere al paradosso (ma è tale?) di una generalizzata chiusura dei corsi per due cicli, immaginare una razionalizzazione delle sedi universitarie -una loro drastica riduzione- può essere una delle soluzioni, insieme al ripristino della giusta selezione dei migliori durante il corso di studi e all’Esame di Stato. Ancora, lo si chiede da più parti anche negli stessi ambiti universitari, occorre ritornare alla laurea specialistica a ciclo unico - solo in architettura- riservando ai laureati la possibilità di approfondire eventuali interessi settoriali e specifici con master universitari di secondo livello. Ciò per una ragione pratica e una logica, questa legata all’essenza stessa della disciplina architettonica che, per suo DNA, è sempre stata e non può che essere olistica e unitaria. Delle questioni sulla sovrapposizione delle competenze e dei lavori, del destino delle figure professionali altre attualmente inquadrate negli Albi degli Architetti, dei problemi di identificazione sia interni che esterni alla professione, che complicano e aggravano gli effetti del sovrannumero, ne ragioneremo in un prossimo post.