Che il mondo sia oramai un sistema globale, interconnesso, ce lo dimostra l’attuale situazione dove uno starnuto a Tokio diventa un tornado a New York. La crisi economica incontrollabile ne è un esempio, anche se traspare da più di un’analisi il sospetto che dietro ci possa essere un sistema di potentati economici che dal disastro generale trae la sua convenienza. La globalizzazione, la libertà -forse quasi la schizofrenia- delle regole che sovrintendono agli scambi economici stà comportando una crisi del mondo occidentale così come lo abbiamo conosciuto, accentuata anche dalle indecisioni che il sistema politico economico europeo dimostra nel gestirla.
Comunque c’è chi sa utilizzare gli spazi lasciati aperti per fare buoni affari. Ad esempio, la Repubblica cinese, forte di una potenza economica enorme, stà pervadendo le economie planetarie, come fece il Giappone qualche decennio fà.
In Africa, imprese edili cinesi, grazie ai loro costi di gestione bassissimi, stanno acquisendo contratti su contratti e, visto che pecunia non olet, organizzazioni religiose cristiane del luogo scelgono di avvalersene per le loro realizzazioni, pur essendo i rapporti tra la Repubblica Popolare Cinese e la Chiesa notoriamente conflittuali. La Cina, diventata un potere mondiale, vuole avere la sua presa anche sull’Africa che, con i suoi bisogni enormi e con le sue ricchezze, rappresenta il futuro economico del mondo intero.
Fondi sovrani cinesi hanno rivolto i loro interessi anche verso la nostra isola, così come investitori mediorientali, e più di una strategia viene analizzata, alimentando speranze di investimenti multimilionari che, per un territorio affamato come il nostro diventano miraggio di uno sviluppo che non abbiamo avuto e non siamo stati capaci di realizzare autonomamente.
Ora però, è vero che per secoli siamo stati abituati alle dominazioni straniere e che queste, vedi gli arabi, ci hanno lasciato comunque un patrimonio di cultura che abbiamo metabolizzato e reinterpretato, tuttavia dobbiamo stare attenti, guardando ai miraggi, a non rischiare pezzi di sovranità territoriale e, soprattutto, a non tagliar fuori da queste ipotesi di sviluppo chi la realtà economica siciliana (e italiana) vive giorno per giorno. Bisogna che la Politica si occupi di questo problema, perché la competizione tra chi subisce un sistema di regole, a volte eccessive e ossessive, e chi invece questo sistema non vive è impossibile. E se il tema oggi può riguardare l’Italia e la Sicilia, domani riguarderà altre realtà. Quindi la questione del riequilibrio dei sistemi non è più un problema nazionale ma europeo, meglio del mondo occidentale.
Perché, se è forse giusto non mettere limiti alla concorrenza, favorire la competizione, è opportuno che questa competizione, questa concorrenza, avvengano su basi comuni o almeno perequate. Anche per far sì che le ricchezze, le opportunità che i territori offrono siano adeguatamente ripartite, abbiano congrue ricadute su chi li vive e abita. Non è un modo di limitarla la concorrenza o la competizione, è solo il tentativo di renderla giusta, realmente a servizio dello sviluppo di un territorio.
Senza colonizzazioni, seppur incruente ma non per questo meno dannose.