Liberalizzazione: termine che ricorre frequentemente in tutti i convegni, proclami che, in questa convulsa e calda estate, trattano della delicata situazione economica europea e italiana.
Per la verità il principio non è nuovissimo visto che venne attuato in Europa credo sin dal 1949 dall’ OECE, attraverso il “Codice di liberalizzazione degli scambi”che intendeva abolire restrizioni quantitative agli scambi internazionali. Oggi le finalità si sono ampliate ed evolute intendendo con questo termine la maggiore possibilità (e semplicità) di intraprendere e gestire qualsiasi attività economica. Il termine viene richiamato e richiesto a gran voce da molti settori dell’economia e della politica italiana, non a caso, visto che notoriamente nel nostro Paese mille lacci e lacciuoli rendono molto complicato gestire qualsiasi lavoro. Ciò impedisce lo sviluppo dell’economia causando un progressivo impoverimento del Paese, visto che l’imprenditore-piccolo o grande che sia- viene scoraggiato nelle sue attività a tal punto da spesso decidere di rinunciarvi. Non mancano casi eclatanti come quello dell’IKEA che, proprio recentemente ha annullato alcune operazioni in Toscana e Piemonte per circa 170 milioni di Euro; abbiamo rischiato la stessa cosa a Catania, dove invece la General Electric ha rinunciato a investire 15 milioni e ad assumere una quarantina di giovani ingegneri presi dalla nostra Università spostando il tutto a Sesto Fiorentino!
Allora dobbiamo liberalizzare per creare sviluppo, ma questo non può significare scardinare il sistema delle relazioni e organizzazioni economico-sociali senza prima intervenire su quelli che sono i vincoli strutturali, rappresentati da una normativa assurda e pletorica e da un malcostume politico-amministrativo. Vi faccio qualche esempio: se un’azienda decide di insediare un nuovo stabilimento dovrà (alla faccia dello Sportello unico) aver a che fare con Ufficio Tecnico, ASL, Vigili del Fuoco, Genio Civile, Soprintendenza ai beni culturali ecc. producendo un’infinità di pareri, elaborati, relazioni, ognuno dei quali sottoposto a infinite norme e disparate interpretazioni più o meno corrette. In caso, non improbabile, di diversità di vedute con gli enti preposti, all’investitore toccherà rivolgersi al sistema giudiziario i cui tempi, non definibili, si misurano in anni.
Chi ha a che fare con il mondo dell’edilizia deve confrontarsi con almeno sei o sette diversi tipi di procedimenti autorizzatori urbanistici, oltre a quelli relativi alla sicurezza, all’igiene, all’ambiente, tra i quali è oramai difficile orientarsi anche tra gli addetti ai lavori, ognuno dei quali ha diversi riti procedurali non sempre universalmente accertati. L’errore è quindi sempre in agguato, anche da parte della P.A. la quale però quasi mai ne risponde, anche quando causa, e non è infrequente, gravi danni economici all’imprenditore.
E allora che sviluppo possiamo immaginare? Ecco, liberalizzare deve significare sfoltire, rapidamente e in maniera seria, questo intricato sottobosco e non perder tempo, come purtroppo non smette di fare l’Antitrust di Catricalà, in sterili polemiche, peraltro contrarie alla norma e alla pratica europea, su Ordini e Tariffe che nulla hanno a che vedere con l’auspicabile liberà d’impresa.