Come si fa tra vecchi amici, mi piace mettervi a parte di quanto discusso a un convegno cui ho partecipato giusto sabato scorso e che aveva come tema il “ridisegno della città tra paesaggio e economia”. Ora, il termine stesso di “ridisegno” implica il concetto di una necessaria mediazione tra i due valori perché, se certamente il paesaggio è economia, è altrettanto vero che l’economia può condizionare (a volte pesantemente) il paesaggio; specialmente se con esso intendiamo una particolare fisionomia del territorio determinata dalle sue caratteristiche fisiche, biologiche, etniche, per come esse vengono percepite dalle persone. Non esiste poi un solo tipo di paesaggio, essendo normale che uno stesso luogo, uno stesso ambito, sia percepito in modo diverso da persona a persona. La percezione di un paesaggio è perciò fatto dinamico, mutevole, frutto della relazione tra la soggettività delle persone e le caratteristiche fisiche, culturali e identitarie di un luogo.
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L’intreccio di questi fattori e interessi rende evidente come siano tante e variabili le azioni che su un territorio, su un paesaggio, si attuino e come sia quindi necessario che esse siano governate secondo una logica “globale”, olistica direbbero i colti, frutto delle relazioni tra diverse discipline scientifiche incluse quelle naturalistiche, perché queste azioni, che noi esercitiamo, ne determinano le trasformazioni e esse dovrebbero essere pienamente consapevoli.
Dicevo che si sono tanti tipi di paesaggio e altrettanti modi di percepirlo: ad esempio, nell’800, era considerato paesaggio la campagna, l’albero o la casa in essa isolata, una visione sostanzialmente naturalistica e romantica. Poi la sensibilità si è evoluta e abbiamo considerato “paesaggio” i tessuti storico-architettonici delle città, basta osservare una foto dall’alto di Siena e della sua Piazza del Campo. Come pure un luogo può diventare “paesaggio” grazie a un’emergenza architettonica che ne diventa mediatore storico-culturale o artistico, vedi il complesso di S. Francesco e la rocca di Assisi. Riconosciamo un valore anche ai paesaggi urbani, quando in essi possiamo individuare dei land-mark capaci di caratterizzarli: penso al rapporto ineludibile tra Napoli, il Vesuvio e il Golfo. Vale anche per città a forte matrice contemporanea, come Londra, in cui i recenti grattacieli di Piano e Foster hanno assunto il ruolo di simbolo della nuova città, del nuovo mondo del nuovo modo di vivere; e questo, sappiamo bene dalle cronache, diventa immediatamente valore economico.
Facendo un esempio di soggettività della percezione, mi viene in mente il famoso “Atelier sul mare” a Castel di Tusa dove avendo la doppia osservazione, dell’edificio dall’esterno e poi dall’interno di questo verso l’esterno, si capisce come basti poco, anche la semplice inversione del cono visuale, per percepire valori e emozioni completamente diversi.
Ci sono “paesaggi” che leggiamo come tali attraverso i segni lasciati dall’uomo. Vedi Fiumara d’Arte, di Presti, (una sorta di Nazca italiana) dove le opere d’arte inserite nel territorio sono state capaci di reinterpretarlo tirandone fuori valori nascosti come una sorta di “realtà aumentata”…
Lo spazio della chiacchierata è finito però, alla fine, la considerazione da fare è quella che il paesaggio è una risorsa incredibile, ne possediamo quantità immense, potremmo metterlo a valore con senso di equilibrio e responsabilità.